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Banche dei semi: una nuova metodologia indica quali specie conservare per salvare le piante dall’estinzione (e ridurre i costi)

La ricerca dell’Università di Pisa pubblicata sulla rivista New Phytologist

Circa due specie di piante su cinque nel mondo potrebbero sparire. Per questo motivo, è importante capire quali specie sono più a rischio e trovare i modi efficaci per conservarle.

È questa la sfida raccolta da un gruppo di ricercatori coordinato dal professore Angelino Carta del Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa. Il risultato è stata una nuova metodologia basata sulla rilevanza evolutiva delle specie grazie alla quale sarà possibile integrare le collezioni attualmente conservate nelle banche dei semi. Lo studio pubblicato sulla rivista New Phytologist promette inoltre anche dei risparmi in termini economici. Al progetto hanno partecipato ricercatori della Stazione Biologica Doñana (Spagna), degli Orti Botanici di Ginevra (Svizzera), Meise (Belgio) e Kew (Regno Unito).

L’analisi ha riguardato un imponente set di dati provenienti da 109 banche dei semi comprendente oltre 22.000 specie relative a tutta la flora d’Europa. È così emerso che le banche custodiscono una ricca varietà di piante, ma ancora non coprono completamente tutta la diversità evolutiva possibile. In pratica, alcuni “rami” dell’albero genealogico delle piante europee non sono rappresentati nelle collezioni. Le specie attualmente non conservate, ma il cui campionamento e stoccaggio in banca sarebbe fondamentale, sono sopratutto quelle che rappresentano un unicum evolutivo perché mostrano delle strategie riproduttive singolari o sono confinate ad aree geografiche limitate.

“Si tratta di un metodo che può essere personalizzato per adattarlo a diversi obiettivi di conservazione, fino all’esaurimento del budget disponibile – sottolinea Carta – La nostra ricerca rappresenta quindi un passo fondamentale per future azioni di conservazione, i risultati possono servire come base di discussione per promuovere nuove politiche, incluso la salvaguardia delle specie in via di estinzione, la resilienza dei sistemi agroalimentari e l’identificazione delle specie più adatte al restauro degli habitat in uno scenario di cambiamenti climatici”.

Il cortile del Palazzo della Sapienza dell’Università degli Studi di Pisa. Foto di Antonio D’Agnelli, in pubblico dominio

Testo dall’Ufficio Comunicazione di Ateneo dell’Università di Pisa.

Cambiamenti climatici: oscillazioni termiche ed eventi estremi mettono a rischio gli ecosistemi marini, ecco come il biofilm reagisce alle variazioni di temperatura dell’aria

Lo studio condotto a Calafuria (Livorno) dall’Università di Pisa e dalla Scuola Superiore Sant’Anna pubblicato su Nature Communications.

Gli scogli di Calafuria in provincia di Livorno sono stati il laboratorio naturale al centro di uno studio dell’Università di Pisa e della Scuola Superiore Sant’Anna per capire come i cambiamenti climatici stiano alterando gli ecosistemi marini. La ricerca, pubblicata sulla rivista Nature Communications, ha analizzato come il biofilm – una sottile pellicola vivente formata da microalghe e batteri fondamentale per la vita delle scogliere – reagisce alle variazioni di temperatura dell’aria.

I ricercatori hanno condotto un esperimento sul campo esponendo il biofilm a due diversi regimi termici: un riscaldamento costante e uno caratterizzato da forti oscillazioni, che simula le condizioni imprevedibili destinate a diventare sempre più comuni nel prossimo futuro a causa del cambiamento climatico. I risultati hanno mostrato che un regime costante di riscaldamento favorisce la presenza di specie con funzioni simili, capaci di “darsi il cambio” in caso di difficoltà. Questo meccanismo permette al biofilm di resistere meglio agli eventi estremi. Al contrario, forti oscillazioni di temperatura riducono la diversità favorendo specie a crescita rapida, capaci di riprendersi velocemente dopo uno shock termico, ma più vulnerabili funzionalmente nel lungo periodo.

L’area di Calafuria, nei pressi di Livorno, caratterizzata da piattaforme rocciose di arenaria esposte all’aria durante la bassa marea, ha fornito un ambiente ideale per studiare il biofilm marino in condizioni naturali. Per simulare l’aumento delle temperature, i ricercatori hanno utilizzato speciali camere di metallo riscaldate con piccole stufe, controllando le variazioni di calore con sensori elettronici. Per valutare la risposta del biofilm, è stata usata una fotocamera a infrarossi in grado di rilevare la quantità di clorofilla. Infine, grazie alla collaborazione con l’Istituto di Scienze della Vita della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, è stato analizzato il DNA dei microrganismi con tecniche avanzate di sequenziamento, simili a quelle utilizzate per studiare il genoma umano, per capire quali funzioni svolgono le diverse specie e come il loro patrimonio genetico le rende più o meno adatte a rispondere agli eventi estremi.

“Il cambiamento climatico non si manifesta solo attraverso l’aumento medio delle temperature, ma anche con una crescente variabilità termica, cioè oscillazioni imprevedibili tra picchi di calore e periodi meno caldi– dice il professore Luca Rindi dell’Università di Pisa, primo autore dello studio – In un mondo che si prospetta sempre più caldo e instabile, i microrganismi marini potrebbero, da un lato, reagire più rapidamente agli shock, ma dall’altro diventare più vulnerabili di fronte a eventi estremi ripetuti nel tempo. In vista delle sfide che il clima ci riserva, lo studio apre una finestra sul futuro, aiutandoci a capire come questo importante elemento dell’ecosistema costiero reagirà ai cambiamenti climatici.”

“Il successo di questa collaborazione dimostra ancora una volta il valore del sistema universitario pisano – dice il professore Matteo Dell’Acqua, direttore dell’Istituto di Scienze delle Piante della Scuola Sant’Anna e coautore dello studio – l’unione delle competenze uniche presenti sul nostro territorio ci permette di esplorare la frontiera della ricerca sugli effetti del cambiamento climatico”

L’Università di Pisa ha avuto un ruolo centrale nello studio, in particolare attraverso il Dipartimento di Biologia, dove hanno operato alcuni degli autori principali, come i professori Luca Rindi e Lisandro Benedetti-Cecchi. L’ateneo ha inoltre fornito supporto scientifico e logistico per la progettazione e la realizzazione degli esperimenti sul campo, oltre a contribuire all’analisi dei dati ecologici e microbiologici grazie al supporto fornito dal Green Data Center.

Il progetto è stato finanziato in parte dal programma europeo ACTNOW (Advancing understanding of Cumulative Impacts on European marine biodiversity, ecosystem functions and services for human wellbeing), che si occupa di studiare gli impatti cumulativi dei cambiamenti climatici sugli ecosistemi marini.

gli scogli di Calafuria cambiamenti climatici ecosistemi marini biofilm
Cambiamenti climatici: oscillazioni termiche ed eventi estremi mettono a rischio gli ecosistemi marini, ecco come il biofilm reagisce alle variazioni di temperatura dell’aria; lo studio pubblicato su Nature Communications. In foto, gli scogli di Calafuria

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

L’influenza dei cambiamenti climatici sulle strategie riproduttive delle piante: uno studio dell’Università di Pisa traccia l’evoluzione dei semi negli ultimi 150 milioni di anni

La ricerca pubblicata sulla rivista New Phytologist

Uno studio dell’Università di Pisa ha tracciato l’evoluzione dei semi negli ultimi 150 milioni di anni evidenziando una relazione diretta tra evoluzione, cambiamento del clima terrestre e comparsa di innovazioni riproduttive nelle angiosperme, le piante a fiore maggiormente diffuse sul nostro pianeta. La ricerca condotta dal professore Angelino Carta dell’Ateneo pisano e da Filip Vandelook del Giardino botanico Meise in Belgio è stata pubblicata sulla rivista New Phytologist.

L’analisi ha riguardato i semi di 900 specie rappresentative di tutte le famiglie di angiosperme di cui è stato valutato il rapporto fra dimensioni dell’embrione e riserve nutritive. Dai risultati è emerso che i cambiamenti del clima della Terra hanno portato a un’ampia diversificazione, permettendo alle angiosperme di esplorare nuove strategie riproduttive e di adattarsi a habitat sempre più vari.

“Non sappiamo se i nuovi tipi di semi hanno favorito tale diversificazione oppure se i nuovi tipi di semi son comparsi in conseguenza di essa. Certamente però, ed è la cosa più affascinante – spiega Carta – l’innovazione evolutiva dei semi, coincide con la comparsa dei principali modelli strutturali dei fiori contribuendo a spingere la biodiversità moderna verso cambiamenti epocali denominati Rivoluzione Terrestre delle Angiosperme”.

La condizione ancestrale delle piante era quella di avere semi con embrioni relativamente piccoli, tendenza che ha avuto poche variazioni sino a quando le temperature medie globali sono state alte, sopra i 25 °C. Quando le temperature globali sono diminuite, con temperature intorno ai 15 °C, l’evoluzione ha favorito semi con embrioni più grandi che tendono infatti a germinare più rapidamente, un vantaggio in ambienti secchi o soggetti a condizioni imprevedibili. E tuttavia, come è emerso dallo studio, questo sviluppo non esaurisce la storia evolutiva dei semi che piuttosto ha avuto un andamento “a salti”. Semi con maggiori riserve nutritive e minori dimensioni dell’embrione mantengono infatti il vantaggio di ritardare la germinazione e aumentare le possibilità di sopravvivenza, soprattutto in ambienti come le foreste e gli habitat umidi.

“Questa ricerca è stata una sfida materiale e virtuale che non solo aiuta a comprendere il passato evolutivo delle piante a fiore, ma potrebbero anche fornire informazioni importanti su come risponderanno ai cambiamenti climatici futuri – conclude Angelino Carta, del Dipartimento di Biologia – la sfida materiale è iniziata diversi anni fa quando abbiamo iniziato, guidati da Filip Vandelook ad assemblare il più grande dataset relativo alle caratteristiche dimensionali e strutturali dei semi, utilizzando sia a materiale vivo ma anche valorizzando materiale conservato in erbari e banche semi; la sfida virtuale è stata gestire e analizzare questa mole di informazioni per ricostruire gli ultimi 150 milioni di anni di storia evolutiva dei semi attraverso sofisticati approcci analitici e le risorse del centro di calcolo dell’Ateneo pisano”.

Link articolo scientifico: https://doi.org/10.1111/nph.20445

Immagine di mxwegele

Testo dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

Censita per la prima volta la flora del Comune di Pisa, in totale sono presenti 1404 specie di cui 112 aliene

La ricerca dell’Università di Pisa pubblicata sulla rivista Plants rivela una ricca diversità floristica, anche se le specie aliene superano le aspettative

La città di Pisa rappresenta un po’ la culla della Botanica moderna: nel 1543, durante il Rinascimento, proprio all’Università venne fondato il primo Orto Botanico accademico al mondo. Ma nonostante questa illustre storia, ancora oggi mancava un elenco completo di tutte le specie e sottospecie di piante vascolari (felci, conifere, piante a fiore) che crescono spontaneamente nel Comune di Pisa.

Censita per la prima volta la flora del Comune di Pisa. Gallery

A colmare questa lacuna è stato un gruppo di botanici dell’Università di Pisa, Lorenzo Peruzzi, Gianni Bedini Jacopo Franzoni del Dipartimento di BiologiaIduna Arduini del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali a cui si è aggiunto Brunello Pierini, studioso appassionato della materia. Il risultato è stata una ricerca appena pubblicata sulla rivista internazionale Plants che ha censito nel Comune di Pisa un totale di 1404 tra specie e sottospecie, di cui 112 aliene.

“Nonostante la marcata urbanizzazione dell’area, abbiamo documentato una importante ricchezza floristica, con il 33% di specie native in più rispetto all’atteso – afferma Lorenzo Peruzzi, professore ordinario di Botanica sistematica – ma purtroppo, anche le specie aliene sono molto rappresentate, con il 34,9% in più rispetto alle aspettavive”.

Dal punto di vista conservazionistico, l’inventario comprende alcune piante a rischio di scomparsa che in gran parte sono state trovate nell’area protetta del Parco Naturale Regionale di Migliarino – San Rossore – Massaciuccoli. In particolare, sono quattro le specie vulnerabili (Butomus umbellatus , Leucojum aestivum subsp. aestivum , Ranunculus ophioglossifoliusThelypteris palustris), nove quelle minacciate (Anacamptis palustrisBaldellia ranunculoidesCardamine apenninaCentaurea aplolepa subsp. subciliataHottonia palustrisHydrocotyle vulgarisSagittaria sagittifoliaSolidago virgaurea subsp. litoralis , Triglochin barrelieri) e una gravemente minacciata (Symphytum tanaicense).

“Il problema delle invasioni biologiche è molto rilevante nel Comune di Pisa – commenta Iduna Arduini, professoressa associata di Botanica ambientale e applicata – Tra le 45 aliene invasive documentate nello studio, ve ne sono 4 di rilevanza unionale, piante cioè i cui effetti negativi sono talmente rilevanti da richiedere un intervento coordinato e uniforme a livello di Unione Europea, e una, Salpichroa origanifolia, localmente molto invasiva”.

“La fonte primaria dei dati floristici utilizzati è rappresentata da Wikiplantbase #Toscana,” – continua Gianni Bedini, professore ordinario di Botanica sistematica – un database floristico liberamente accessibile da cui abbiamo potuto estrarre ben 12.002 segnalazioni, disponibili grazie allo sforzo di numerosi e attivi collaboratori, ben esemplificando il ruolo cruciale giocato anche dalla cosiddetta Citizen Science nell’accumulare importanti informazioni di tipo floristico”.

“Questo lavoro, oltre a fare il punto sulle conoscenze floristiche della città, fornirà anche i dati di base per il progetto IDEM FLOS, finanziato nell’ambito di un bando a cascata del National Biodiversity Future Center, con l’Università di Trieste come partner capofila – conclude Jacopo Franzoni, assegnista in Botanica sistematica – consentendoci di costruire uno strumento per l’identificazione di tutte queste specie, che sarà reso liberamente accessibile entro il 2025 e potrà essere usato per diffondere le conoscenze della flora locale alla popolazione”.

Riferimenti bibliografici:

Peruzzi L, Pierini B, Arduini I, Bedini G, Franzoni J. The Vascular Flora of Pisa (Tuscany, Central Italy), Plants. 2025; 14(3):307, DOI: https://doi.org/10.3390/plants14030307

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

Inquinamento da farmaci: gli effetti degli antinfiammatori sull’ambiente marino

L’ibuprofene, il cui uso è cresciuto molto durante la pandemia di COVID-19, può ridurre la capacità delle piante marine di rispondere a stress ambientali. La ricerca dell’Università di Pisa pubblicata sul Journal of Hazardous Materials.

Una cura per noi, un pericolo per l’ambiente. Per la prima volta una ricerca dell’Università di Pisa, appena pubblicata sul Journal of Hazardous Materials, ha esaminato l’impatto di diverse concentrazioni di ibuprofene, un comune antinfiammatorio molto utilizzato durante la pandemia di COVID-19, sulle angiosperme marine.

“Le angiosperme marine svolgono ruoli ecologici cruciali e forniscono importanti servizi ecosistemici, ad esempio proteggono le coste dall’erosione, immagazzinano carbonio e producono ossigeno, supportano la biodiversità, e costituiscono una nursery per numerose specie animali”, spiega la professoressa Elena Balestri del dipartimento di Biologia dell’Ateneo pisano.

In particolare, la ricerca si è focalizzata su Cymodocea nodosa (Ucria, Ascherson), una specie che cresce in aree costiere poco profonde, anche in prossimità della foce dei fiumi, zone spesso contaminate da molti inquinanti, farmaci compresi.

La sperimentazione è avvenuta in mesocosmi all’interno dei quali le piante sono state esposte per 12 giorni a concentrazioni di ibuprofene rilevate nelle acque costiere del Mediterraneo. È così emerso che la presenza di questo antinfiammatorio a concentrazioni di 0,25 e 2,5 microgrammi per litro causava nella pianta uno stress ossidativo ma non danni irreversibili. Se invece la concentrazione era pari a 25 microgrammi per litro, le membrane cellulari e l’apparato fotosintetico erano danneggiate, compromettendo in tal modo la resilienza della pianta a stress ambientali.

“Il nostro è il primo studio che ha esaminato gli effetti di farmaci antinfiammatori sulle piante marine – dice Elena Balestri – Attualmente, si stima che il consumo globale di ibuprofene superi le 10.000 tonnellate annue e si prevede che aumenterà ulteriormente in futuro, e poiché gli attuali sistemi di trattamento delle acque reflue non sono in grado di rimuoverlo completamente anche la contaminazione ambientale aumenterà di conseguenza”.

“Per ridurre il rischio di un ulteriore aggravamento del processo di regressione delle praterie di angiosperme marine in atto in molte aree costiere – conclude Balestri – sarà quindi necessario sviluppare nuove tecnologie in grado di ridurre l’immissione di ibuprofene e di altri farmaci negli habitat naturali, stabilire concentrazioni limite di questo contaminante nei corsi d’acqua e determinare le soglie di tolleranza degli organismi, non solo animali ma anche vegetali”.

Complessivamente, le strutture dell’Ateneo pisano coinvolte nello studio sono i dipartimenti di Biologia, di Farmacia e di Scienze della Terra, il Centro per l’Integrazione della Strumentazione scientifica (CISUP) e il Centro Interdipartimentale di Ricerca per lo Studio degli Effetti del Cambiamento Climatico (CIRSEC).

In particolare, la ricerca è stata realizzata grazie alla collaborazione di tre team di ricerca. Il gruppo di Ecologia, costituito dalla professoressa Elena Balestri, dal professore Claudio Lardicci e dalla dottoressa Virginia Menicagli, assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Biologia, si occupa da anni dello studio degli impatti di contaminanti, tra cui plastiche, microplastiche, nanoplastiche e filtri solari, e dei cambiamenti climatici sugli organismi vegetali marini e terrestri tipici della fascia costiera. Il gruppo di Botanica, con la professoressa Monica Ruffini Castiglione e quello di Fisiologia Vegetale, con le dottoresse Carmelina Spanò, Stefania Bottega e il dottor Carlo Sorce, studiano invece le risposte delle piante all’inquinamento da metalli e da micro e nanoplastiche. Inoltre, conducono ricerche sulla biologia delle piante degli ambienti costieri, in particolare sui meccanismi di risposta agli stress causati dai fattori ambientali, sia naturali, sia di origine antropica.  Il gruppo di Biologia Farmaceutica, infine, costituito dalla professoressa Marinella De Leo e dalla dottoressa Emily Cioni, dottoranda del Dipartimento di Farmacia, si occupa dello studio chimico di prodotti naturali prodotti dalle piante.

Prateria di Cymodocea nodosa in regressione
Inquinamento da farmaci: gli effetti degli antinfiammatori sull’ambiente marino; uno studio pubblicato sul Journal of Hazardous Materials. In foto, prateria di Cymodocea nodosa in regressione

Riferimenti bibliografici:

Virginia Menicagli, Monica Ruffini Castiglione, Emily Cioni, Carmelina Spanò, Elena Balestri, Marinella De Leo, Stefania Bottega, Carlo Sorce, Claudio Lardicci, Stress responses of the seagrass Cymodocea nodosa to environmentally relevant concentrations of pharmaceutical ibuprofen: Ecological implications,
Journal of Hazardous Materials, Volume 476, 2024, 135188, ISSN 0304-3894, DOI: https://doi.org/10.1016/j.jhazmat.2024.135188

 

Testo e foto dall’Ufficio stampa dell’Università di Pisa.

PIANTE IN MOVIMENTO: Progetto ROOMors – At the roots of motor intentions

Inaugurato oggi il laboratorio dove si studiano le piante e come sono in grado di pianificare intenzionalmente un’azione

L’intenzione è “nascosta” nelle caratteristiche specifiche del movimento stesso. Eseguire un’azione non prevede solo una componente biomeccanica, ma anche una componente intenzionale che tiene conto del perché un’azione viene eseguita. Per esempio, è possibile afferrare un bicchiere d’acqua per portarlo alla bocca e bere, oppure si può eseguire la stessa azione per porgere il bicchiere d’acqua ad un’altra persona. Nel caso esposto il modo in cui viene afferrato il bicchiere sarà diverso a seconda della ragione ultima che ha guidato l’azione.

ROOMors – At the roots of motor intentions – sotto la supervisione del Prof. Umberto Castiello in qualità di Responsabile scientifico del progetto di ricerca, apre nuovi scenari nella comprensione di questi processi considerando organismi privi di un sistema nervoso centrale quali appunto le piante.

«Le nostre ricerche più recenti suggeriscono che anche le piante sono in grado di pianificare un’azione e che tali azioni potrebbero essere guidate da una componente intenzionale. Questo progetto affronta lo studio di processi che sino a pochi anni fa sarebbe stato impensabile ascrivere alle piante: la capacità di pianificare un movimento in base all’intenzione che lo determina, di comunicare attraverso una forma di linguaggio chimico e di prendere decisioni importanti per risolvere i problemi dettati da un ambiente in continua mutazione», dice Umberto CastielloResponsabile scientifico di ROOMors che avrà durata quinquennale ed è finanziato con 4 milioni di euro. E lo fanno senza neuroni e cervello in una maniera più efficace di tanti animali inclusi gli esseri umani. Con un’analisi di tipo fisio-molecolare si ambisce a codificare i geni che sottostanno alla capacità delle piante di agire in maniera intenzionale. Queste conoscenze – continua Castiello – potrebbero portare ad esplorare parallelismi con le specie animali per comprendere le origini comuni di tali processi. Noi esseri umani condividiamo con le piante tra il 30 ed il 50% dei geni».

Attraverso appunto l’utilizzo di tecniche sofisticate sia per l’analisi del movimento, che per la rilevazione delle molecole chimiche utilizzate dalle piante per comunicare e per la caratterizzazione genetica, ROOMors andrà alla ‘radice’ dell’”intenzionalità”.

Il progetto si inserisce all’interno dell’area di ricerca denominata “Psicologia Comparata” che studia, attraverso un metodo comparativo il comportamento delle diverse specie animali, incluso l’uomo e le piante. Viene studiata la capacità delle piante di pianificare un movimento e di comunicare attraverso un linguaggio chimico e motorio che per certi aspetti le accomuna alle modalità utilizzate dalle specie animali. Tutto questo senza voler trasformare le piante in animali o antropomorfizzarle. Lo scopo è di trovare analogie che permettano di arrivare alle radici evolutive di tali processi.

«Il progetto nasce da una serie di studi in cui abbiamo dimostrato per la prima volta, attraverso l’utilizzo di sofisticate tecniche di analisi del movimento, che le piante sono in grado di pianificare una risposta in base alle caratteristiche degli stimoli ambientali e al contesto in cui si sviluppano. Inoltre, le nostre ricerche indicano che le piante sono in grado di riconoscere l’attitudine sociale espressa da altre piante e agire di conseguenza – sottolinea Umberto Castiello –. Piuttosto che studiare le piante per scopi legati alla produttività e allo sfruttamento cerchiamo di capire come le piante vivono la loro vita e applicano soluzioni “intelligenti”. L’idea è di arrivare a decodificare il loro linguaggio chimico e comportamentale per farci dire da loro come salvaguardare l’ambiente e la nostra specie. Il modello sperimentale utilizzato è la pianta di pisello: abbiamo scelto questa pianta perché il suo movimento verso un potenziale supporto è indice di una azione orientata verso un oggetto. Un perfetto esempio di percepire per agire. Le piante – conclude Castiello – vengono studiate in un ambiente all’interno del quale viene controllata l’illuminazione, l’irrigazione, la temperatura e l’umidità. Durante il loro sviluppo siamo in grado di effettuare in tempo reale l’analisi tridimensionale del movimento, l’analisi delle molecole volatili utilizzate per comunicare e l’analisi dei potenziali elettrici utilizzati per scandagliare l’ambiente circostante. L’acquisizione simultanea di tutti questi segnali e la possibilità di poterli correlare rende il nostro laboratorio unico al mondo. Ricercatrici e ricercatori con competenze diverse quali la bioinformatica, la bioingegneria, la chimica analitica, la filosofia, la fisiologia vegetale e la psicologia fisiologica e comparata studiano il comportamento delle piante con le tecnologie più sofisticate».

«Tre sono i livelli in cui questo progetto si innesta nelle ricerche del dipartimento. Il primo è teorico: lo studio della cognizione affrontato anche dalla prospettiva vegetale fornisce una visione più integrata dell’evoluzione dei processi cognitivi. Il secondo è di opportunità perché offre a giovani psicologi e psicologhe la possibilità di confrontarsi con nuove tecnologie arricchendo così il bagaglio metodologico ad alta tecnologia tipico della formazione psicologica che già include tecniche quali la risonanza magnetica funzionale, l’elettroencefalografia e altre applicazioni nell’ambito delle neuroscienze”, ­ afferma Francesca Pazzaglia, Direttrice del Dipartimento di Psicologia Generale dell’Università di Padova. Il terzo, infine, è applicativo: questo filone di ricerche potrà contribuire a comprendere se i meccanismi che permettono alle piante di percepire, agire e comunicare sono influenzati dai cambiamenti climatici in atto. Un’agricoltura di precisione che mira alla salvaguardia delle risorse oltre alla ottimizzazione di input chimici, meccanici e biologici non può prescindere da una valutazione “psicologica” della capacità delle piante di fronteggiare i cambiamenti in atto.”

Umberto Castiello è Professore Ordinario di Neuroscienze Cognitive al Dipartimento di Psicologia Generale dell’Università di Padova. Ha lavorato in università straniere quali l’Università di Lione, l’Università dell’Arizona, l’Università di Melbourne e l’Università di Londra. È diventato Professore Ordinario all’Ateneo patavino nel 2004 con chiamata per chiara fama. Membro di diverse società scientifiche tra cui il “Centro Beniamino Segre” all’Accademia dei Lincei. La sua attività di ricerca è centrata sull’utilizzo delle tecniche di analisi tridimensionale del movimento e di spettrometria di massa per studiare il comportamento e la comunicazione negli esseri umani e nelle piante. I suoi studi più recenti sono per lo più basati sullo sviluppo di nuovi e sofisticati esperimenti che impiegano l’analisi del movimento e altre metodologie per studiare il comportamento e la comunicazione nelle piante. I suoi risultati più importanti includono la dimostrazione che le piante, anche in assenza di un cervello, sono in grado di percepire e valutare le caratteristiche fisiche degli elementi esterni al fine di poter “pianificare” un movimento funzionale al raggiungimento di un obiettivo. Aprendo così una nuova visione per lo studio delle capacità cognitive, affrontato sia dalla prospettiva animale sia vegetale (neurale e non neurale) che offre una visione più integrata dell’evoluzione dei processi cognitivi e delle interazioni ecologiche che contribuiscono a modellarli. La sua ricerca è stata finanziata da vari programmi e fondazioni internazionali e nazionali. Per ultimo il prestigioso ERC Advanced Grants per studiare l’intenzionalità nelle piante. Ha pubblicato oltre 300 lavori su riviste internazionali.

Testo, video e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

Un fiore mai visto prima è sbocciato in montagna: scoperta una nuova specie di Campanula nelle Prealpi bergamasche, la Campanula bergomensis

Un gruppo di ricercatori dell’Università degli Studi di Milano, dell’Università di Siena e del gruppo Flora Alpina Bergamasca (FAB) ha scoperto una nuova specie di pianta, che cresce in un territorio ristretto delle Prealpi lombarde. La specie appartiene al genere Campanula ed è stata denominata Campanula bergomensis, ovvero di Bergamo, dal nome della provincia di cui è esclusiva. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Phytotaxa.

Campanula bergomensis

Milano, 28 febbraio 2024 – Una nuova campanula, mai scoperta prima, è stata identificata nelle Prealpi Bergamasche da un gruppo di ricerca coordinato dall’Università degli Studi di Milano, assieme all’Università di Siena e al gruppo Flora Alpina Bergamasca – FAB.

Lo studio è stato pubblicato sulla rivista internazionale Phytotaxa.

Si tratta di Campanula bergomensis, la cui caratteristica è che cresce in ambienti molto particolari: su conoidi detritici carbonatici di bassa quota e si trova solo in poche valli nei pressi della città di Clusone (BG).

Gli studiosi hanno trovato delle affinità con Campanula cespitosa, che fiorisce sulle Alpi orientali in Italia, Austria e Slovenia. Ma attraverso analisi genetiche, morfologiche e palinologiche, hanno visto che le due specie sono in realtà ben distinte e che Campanula bergomensis rappresenta un’entità autonoma rispetto alle campanule conosciute. Alcuni esemplari della nuova specie sono stati cresciuti da seme e ora sono in coltivazione all’Orto Botanico Città Studi della Statale di Milano.

Secondo i ricercatori, la distribuzione ristretta della nuova specie, che solo in minima parte ricade all’interno di aree protette, rende necessarie appropriate iniziative di tutela.

“La specie”, spiega Barbara Valle, ricercatrice dell’Università di Siena e prima firmataria dell’articolo “ha un areale limitato ed è gravemente minacciata dalle attività umane. È quindi urgente adottare delle misure di protezione e conservazione”.

Questa scoperta dimostra come la biodiversità italiana riservi ancora molte sorprese e che le conoscenze sulla nostra flora e fauna siano tutt’altro che complete, oltre a confermare la straordinaria ricchezza floristica delle zone prealpine. Per affrontare la perdita di biodiversità attualmente in corso è necessario innanzitutto conoscerla a fondo, indagando anche territori apparentemente ben conosciuti” conclude Marco Caccianiga, docente di Botanica del Dipartimento di Bioscienze dell’Università Statale di Milano e coordinatore della ricerca.

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano

Contrastare la sterilità dei terreni con piante tolleranti alle alte concentrazioni saline 

Una nuova ricerca coordinata da Raffaele Dello Ioio della Sapienza Università di Roma ha individuato il meccanismo molecolare che inibisce lo sviluppo delle radici quando una pianta si trova in un terreno con elevate presenza di sale. Lo studio, pubblicato su Communications Biology, può portare allo sviluppo di piante in grado di sopravvivere e avere alta resa agricola anche se esposte a questo minerale.

Come effetto del riscaldamento globale, le condizioni climatiche di molte aree nel mondo stanno radicalmente cambiando aumentando le zone soggette ad inaridimento del suolo o ad alluvioni. Tali cambiamenti causano un aumento della concentrazione salina nel suolo, rendendo molte aree coltivabili quasi completamente sterili. Infatti, l’aumento di sale nel suolo inibisce la crescita delle piante causando una notevole riduzione nella resa agricola.

Il primo organo che viene a contatto con il sale presente nel suolo è la radice: da questa propagano segnali che generano molteplici anomalie nello sviluppo di tutta la pianta che conducono alla morte.

Un nuovo studio coordinato da ricercatori del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza di Roma ha combinato esperimenti di biologia molecolare, genetica e biologia computazionale giungendo a identificare il meccanismo molecolare che inibisce la crescita della radice quando una pianta è esposta ad alte concentrazioni saline. I risultati del lavoro sono stati pubblicati sulla rivista Communications Biology.

Il gruppo di ricerca si è servito della nota pianta modello Arabidopsis thaliana, meglio conosciuta come Arabetta comune, percomprendere come le condizioni chimiche, fisiche e meccaniche del suolo interferiscano con lo sviluppo della radice alterando di conseguenza lo sviluppo della pianta in toto.

“Questo studio – commenta Raffaele Dello Ioio – è seminale per la produzione futura di piante resistenti ad alte concentrazioni saline. Infatti, è plausibile che rendendo le radici delle piante insensibili alla presenza di sale nel suolo queste potranno sopravvivere ed avere alta resa agricola anche se esposte a questo minerale”.

Arabidopsis thaliana piante tolleranti concentrazioni saline
Contrastare la sterilità dei terreni con piante tolleranti alle alte concentrazioni saline: la pianta modello Arabidopsis thaliana. Foto di Flocci Nivis, CC BY-SA 4.0

Riferimenti:

microRNA165 and 166 modulate response of the Arabidopsis root apical meristem to salt stress – Daria Scintu, Emanuele Scacchi, Francesca Cazzaniga, Federico Vinciarelli, Mirko De Vivo, Margaryta Shtin, Noemi Svolacchia, Gaia Bertolotti, Simon Josef Unterholzner, Marta Del Bianco, Marja Timmermans, Riccardo Di Mambro, Paola Vittorioso, Sabrina Sabatini, Paolo Costantino & Raffaele Dello Ioio – Communications Biology (2023)  https://www.nature.com/articles/s42003-023-05201-6

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

 

Le piante delle Alpi in fuga dal caldo

Pubblicato su «PNAS» lo studio dell’Università di Padova e della Fondazione Museo Civico di Rovereto in cui si dimostra come la maggioranza delle piante delle Alpi nord orientali italiane si sposta verso quote più alte come risposta ai cambiamenti climatici. Il Bromus erectus, ad esempio, negli ultimi trent’anni si è spostato con una velocità di circa 3 metri l’anno. Il Sorghum halepense, una specie aliena, si è spostato con una velocità di 4 metri l’anno. Diverso è il caso della Pulsatilla montana, specie rara, che ha retratto la sua distribuzione storica di circa 50 metri nei trent’anni. Le piante aliene, soprattutto negli ambienti antropizzati, sono molto veloci a crescere e sottraggono le risorse alle altre specie autoctone.

È stata pubblicata sulla rivista internazionale «Proceedings of the National Academy of Sciences» (PNAS) la ricerca dal titolo “Red-listed plants are contracting their elevational range faster than common plants in the European Alps” firmato dal professor Lorenzo Marini e dalla dottoressa Costanza Geppert del Dipartimento di Agronomia, Animali, Alimenti, Risorse naturali e Ambiente dell’Università di Padova insieme ad Alessio Bertolli e Filippo Prosser, botanici della Fondazione Museo Civico di Rovereto, sulle variazioni della distribuzione geografica delle piante alpine in base ai cambiamenti a lungo termine delle temperature.

Lo studio ha monitorato non solo la presenza, ma anche la tipologia (autoctona comune, autoctona rara e aliena) della flora situata sulle Alpi Nord-orientali italiane: in questi tre decenni vi è stato uno spostamento verso quote più alte delle popolazioni di piante. Eppure la distribuzione delle specie autoctone rare non si è espansa verso l’alto in concomitanza con i cambiamenti climatici, ma si è, anzi, contratta. Infine le piante aliene, invece, si sono diffuse rapidamente a quote più alte spostandosi con la stessa velocità del riscaldamento climatico pur mantenendo la loro presenza anche a valle.

ALPI LE PIANTE IN FUGA DAL CALDO
Papaveri. Credits: Paolo Paolucci

La pubblicazione, frutto della collaborazione di Lorenzo Marini e Costanza Geppert dell’Università di Padova con Filippo Prosser e Alessio Bertolli, esperti botanici della Fondazione Museo Civico di Rovereto, dimostra che la flora alpina vive un profondo mutamento. Alcune popolazioni di piante, per effetto del cambiamento climatico, sono sottoposte a temperature troppo alte per la loro sopravvivenza. Per questa ragione alcune specie “migrano” a quote più alte, dove si trovano condizioni termiche più fredde.

Tuttavia non è solo l’innalzamento della temperatura a sconvolgere la flora alpina, anche l’attività dell’uomo ha un importante impatto poiché a valle si concentrano le attività antropiche e vi è maggiore è una pressione sull’ambiente.

Il paesaggio alpino ha subito importanti trasformazioni negli ultimi anni: sono aumentate a valle le aree urbane o agricole e, parallelamente, sono stati abbandonati i prati semi-naturali – non sfruttabili da un’agricoltura sempre più intensiva – a quote intermedie.

Le piante delle Alpi in fuga dal caldo: Pulsatilla montana. Credits: Paolo Paolucci

Come è stata calcolata la velocità di risalita? Per prima cosa si è stimata, per ogni specie, la distribuzione di densità (probabilità) in cui si verificava il fenomeno. Il margine caldo è stato collocato nel 10% (quantile) della distribuzione, quello freddo nel restante 90%. Lo spostamento è stato misurato raffrontando (in sottrazione) i quantili storici del periodo 1990-2004 da quelli attuali 2005-2019.

Per specie aliena si intende una qualsiasi specie vivente (nel nostro caso vegetale) che, a causa dell’azione dell’uomo (accidentale o deliberata), si trova ad abitare e colonizzare un territorio diverso dal suo areale di origine, autosostenendosi riproduttivamente nel nuovo sito. In particolare, nel studio, sono state considerate aliene le specie consolidate introdotte dall’uomo in Europa da un altro continente dopo il XVI secolo. Come specie aliena, il Sorghum halepense, negli ultimi trent’anni, ha spostato il margine freddo della sua distribuzione verso quote più elevate con una velocità di circa 4 metri l’anno.

Le specie comuni, quelle autoctone non inserite nella lista rossa IUCN (organismo mondiale che monitora lo stato del mondo naturale e propone misure necessarie per la sua salvaguardia), si sono spostate verso quote più elevate. Questo movimento, però, non è stato omogeneo. Un esempio può essere il Bromus erectus che si è spostato di circa 3 metri l’anno al margine freddo e 5 metri l’anno al margine caldo, restringendo, quindi, la sua distribuzione totale. La Pulsatilla montanaspecie rara, non ha conquistato quote più elevate ma ha, anzi, retratto la sua distribuzione storica di circa 50 metri.

Costanza Geppert
Costanza Geppert

«In ecologia è raro poter esaminare dati con una buona risoluzione spaziale e temporale. In questo studio abbiamo potuto analizzare i cambiamenti di distribuzione di più di un milione di record di 1.479 specie alpine in un periodo di trent’anni – spiega Costanza Geppert, prima autrice dello studio –. I valori sono stati registrati con dei rilievi floristici in campo dal team di botanici della Fondazione Museo Civico di Rovereto che ha mappato per più di trent’anni le specie presenti nella provincia di Trento.Dalla nostra analisi sono emersi risultati allarmanti: le piante rare sono in diminuzione».

Lorenzo Marini
Lorenzo Marini

«La rapida perdita delle aree di distribuzione specifica delle piante rare si è verificata in zone in cui le attività umane e le pressioni ambientali sono elevate. Questo ci suggerisce che bisognerebbe proteggere anche alcune aree a valle e non solo le zone d’alta quota più remote – afferma Lorenzo Marini, coordinatore dello studio –. Quello che abbiamo fatto è stato misurare l’abilità a competere, anche con l’uomo, delle specie vegetali. Le piante aliene in condizioni di disturbo – per fertilizzazione, rimozione della vegetazione residente per la costruzione di una casa, una strada o un parcheggio – sono molto veloci a crescere e sfruttare le risorse presenti, sottraendole alle altre specie autoctone. Dal nostro studio è emerso che proprio nelle aree più antropizzate e disturbate le piante aliene sono particolarmente abili a competere con le altre specie».

«Sono numerose le specie floristiche minacciate legate agli ambienti agricoli tradizionali e a prati e pascoli – osservano Filippo Prosser e Alessio Bertolli, botanici esperti della Fondazione Museo civico di Rovereto che hanno coordinato i rilievi di campo in Trentino –. Le zone aperte rischiano di scomparire poiché nelle aree più acclivi e scomode sono in fase di abbandono, mentre in quelle pianeggianti vicino alle strade sono soggette a sempre più eccessive concimazioni e pascolamenti, che determinano una banalizzazione della componente floristica. Il pericolo è perdere specie davvero uniche e preziose per la biodiversità delle nostre Alpi».

Link alla ricerca: https://www.pnas.org/doi/10.1073/pnas.2211531120

Titolo: “Red-listed plants are contracting their elevational range faster than common plants in the European Alps” – «PNAS» 2023

Autori: Costanza Geppert, Alessio Bertolli, Filippo Prosser, Lorenzo Marini.

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Padova.

Vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare: tra credenze e evidenze

Anche io, almeno fino a qualche tempo fa, cadevo nella facile conclusione che ci fosse una connessione tra Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) e Vegetarianismo. D’altronde, entrambe condividono una tendenza a orientare le proprie scelte alimentari a favore di vegetali e frutta, cibi tendenzialmente ipocalorici. Poi a un certo punto, come mi accade per molte credenze, mi è venuta voglia di sbirciarci dentro e ho deciso di approfondire il tema, un po’ per curiosità personale, un po’ per “dovere” professionale. 

Spoiler per chi non vuole leggere fino in fondo: la letteratura scientifica esistente su questo argomento è molto intricata, un po’ per le diverse metodiche utilizzate, un po’ a causa della complessità nel definire il “vegetarianismo” in modo chiaro e ineluttabile. Insomma, trarre una conclusione univoca è difficile. Per chi invece si è incuriosito e vorrebbe saperne di più, andate avanti e godetevi la lettura, la ricompensa sarà l’averci capito qualcosa in più rispetto a chi si ferma qui!

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Vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare. Foto PublicDomainPictures

Intanto, cosa sono i Disturbi del Comportamento Alimentare?

I DCA sono una serie di disturbi psichiatrici accomunati da due sintomi principali: l’alterazione delle abitudini alimentari e l’eccessiva preoccupazione per il peso e per la forma del corpo. Insorgono prevalentemente durante l’adolescenza e ne soffrono soprattutto le donne. Sebbene ognuno di noi possa utilizzare strategie comportamentali o cognitive per cercare di limitare l’ingestione di cibo o controllare il proprio peso corporeo, non tutti soffrono di un DCA: ci sono infatti dei criteri diagnostici ben precisi che chiariscono cosa è patologico e cosa no, e sono ben descritti nel DSM-5 [1] e nell’ICD-11 [2].

 

Anoressia nervosa: fattori di rischio genetici e ambientali

I 3 principali DCA sono i) l’anoressia nervosa, caratterizzata da una costante ricerca della magrezza, da una paura patologica di prendere peso e da una distorta immagine corporea, le quali determinano un’assunzione di calorie insufficiente rispetto alle richieste fisiologiche, con conseguente perdita di peso che si attesta sotto la norma; ii) la bulimia nervosa, caratterizzata da abbuffate a cui seguono sensi di colpa legati alle preoccupazione per il peso e quindi condotte di eliminazione/compensatorie (vomito autoindotto, uso di lassativi, diuretici, pratica sportiva eccessiva ecc.) che dovrebbero placare l’ansia di prendere peso e iii) il disturbo da alimentazione incontrollata (o binge eating disorder) in cui sono presenti abbuffate e sensi di colpa, ma mancano le condotte eliminatorie che caratterizzano la bulimia nervosa; spesso si associa a un peso sopra la norma.

anoressia nervosa fattori di rischio
Vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare. Foto di StockSnap

 

E invece il vegetarianismo cos’è?

Qui iniziano i problemi, perché la prima vera difficoltà con cui si scontra la letteratura che indaga il rapporto tra vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare è la definizione stessa di vegetarianismo e il modo in cui questa variabile viene declinata nei diversi studi.
Partiamo col dire che il
vegetarianismo (o vegetarianesimo o vegetarismo) è un insieme di pratiche alimentari accomunate dal prevalente consumo di alimenti vegetali. Il fatto è che è possibile distinguere molti sottogruppi di vegetariani: i latto-ovo-vegetariani sono le persone che non assumono carne animale e prodotti della pesca, ma che assumono altri derivati animali come latticini e uova (esistono però anche i latto-vegetariani e gli ovo-vegetariani); i vegani, evitano anche tutti gli altri derivati animali come appunto latte e uova; i semi-vegetariani invece evitano solo alcune tipologie di carne oppure mangiano pesce ma non carne (pescetariani) oppure possono consumare carne, ma in modo saltuario (flexitariani).

Molti studi, per semplicità, raggruppano i “vegetariani” in un unico gruppo, confrontandoli con i non vegetariani; altri studi si sono sforzati di suddividerli nei vari sottogruppi, in modo da confrontarli tra di loro, oltre che con gli onnivori. Quest’ultimo approccio, probabilmente il migliore, è stato usato di rado, a causa della difficoltà a reclutare un numero sufficientemente grande di individui con i vari tipi di vegetarianismo, ma la comprensione della relazione tra alimentazione a base vegetale e DCA sembra passare di qui.

 

Un thali vegetariano dal Rajasthan. Foto di Simranjeet Sidhu, CC BY-SA 4.0

Come se non bastasse, la decisione di diventare vegetariani può originare da una infinità di motivi: ci sono persone che sono vegetariane perché richiesto dalla loro religione (in India, ad esempio, il vegetarianismo è una questione storicamente religiosa), vegetariani che semplicemente non possono permettersi la carne o vegetariani che rifiutano di consumare carne solo per le proprietà gustative.

Ciononostante, nelle società industrializzate e secolarizzate occidentali possiamo distinguere fondamentalmente tre motivazioni che spingono una persona a diventare vegetariana. La prima motivazione è quella di stampo etico-animalista, cioè i vegetariani che affermano di seguire una dieta a base vegetale allo scopo di ridurre lo sfruttamento e le pratiche crudeli che subiscono gli animali d’allevamento. Un’altra parte di vegetariani riferisce di evitare carne e derivati animali per ragioni salutistiche e nutrizionali, ed in effetti una dieta a base vegetale – se ben bilanciata – sembra ridurre l’incidenza di disturbi cardiovascolari e cancro (Campbell, 1998; Hart, 2009). Infine, una terza motivazione è quella etico-ecologista, legata alla problematiche che gli allevamenti determinano a livello ambientale, causate dal sovraconsumo di acqua o dall’eccessiva emissione di gas inquinanti.

Vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare. Foto di Daniel Reche

Ora, quali sono le motivazioni più spesso addotte da chi ha deciso di seguire una dieta a base vegetale? Klopp e colleghi (2003) suggeriscono che la ragione più di frequente riportata da chi intraprende una dieta vegetariana è quella relativa alla maggior salubrità rispetto alla dieta onnivora (37,5%), Timko e collaboratori (2012) invece hanno trovato che le motivazioni più spesso richiamate dai vegetariani sono quelle di natura etico-animalista (50% del campione). A complicare il panorama ci pensa la ricerca di Baş e collaboratori (2005) che riportava come ragione più comune semplicemente le preferenze gustative (cioè il 58,1% del campione ha dichiarato di essere vegetariano semplicemente perché non apprezza a livello gustativo carne e/o derivati animali).

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Vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare. Foto di S. Hermann & F. Richter


Queste differenze sono in parte spiegate dalle caratteristiche sociodemografiche dei partecipanti, in prevalenza statunitensi sia nello studio di Klopp che in quello di Timko, ma in quest’ultimo caso più adulti (età media 26 contro i 19 del campione di Klopp). Nello studio di Baş invece i partecipanti erano turchi con un’età media di 21 anni. Queste differenze ci indicano che è fondamentale considerare gli aspetti sociodemografici, ma è invece trasversale la constatazione che molti dei vegetariani che parlano di motivazioni salutistiche/nutrizionali dietro alle loro scelte alimentari, fanno riferimento più o meno esplicito anche alla possibilità di poter controllare più facilmente il proprio peso e la forma del proprio corpo, escludendo i grassi animali dalla propria dieta (Bardone-Cone et al., 2012). Ed in effetti i vegetariani presentano un più accentuato tratto di ortoressia (fissazione sull’alimentazione salutare) rispetto agli onnivori (Barthels et al., 2018). È qui che nasce un primo collegamento con i DCA. 

 

Partiamo dagli stili alimentari…

Come abbiamo detto sopra, per fare diagnosi di DCA si deve soddisfare una serie di criteri. Questo non vuol dire che però ognuno di noi non possa presentare stili alimentari più o meno disfunzionali, senza per forza sfociare nella patologia. Uno di questi stili è il Restrained Eating, che potremmo tradurre come restrizione alimentare o dietetica. Per restrizione dietetica si intende il ricorso sistematico a diete o il tentativo di limitare il consumo di cibo in generale, al fine di controllare il proprio peso corporeo. Nella realtà dei fatti, le restrizioni dietetiche si manifestano come il ricorso a digiuni o, più frequentemente, come una riduzione nel consumo di specifici prodotti o macronutrienti, senza un reale riscontro sul peso, che è esattamente ciò che accade nel vegetarianismo. Inoltre, poiché a restrizioni croniche conseguono spesso abbuffate, elevati tratti di “restrained eating” sembrano predire la manifestazione di diversi DCA (Stiche, 2002; Polivy & Herman, 2002).

Dato che è possibile misurare le restrizioni dietetiche come fossero un tratto di personalità utilizzando specifici questionari, molti studi si sono concentrati su questo stile, per vedere se è più accentuato nei vegetariani che negli onnivori. I dati ci dicono che vegani e latto-ovo-vegetariani non si differenziano per questo tratto rispetto agli onnivori, ed anzi qualcuno suggerisce che una dieta vegana sia collegata a minori livelli di restrizioni alimentari (Janelle & Bar, 1995; Kahleova et al., 2013). Al contrario flexitariani e semi-vegetariani, che evitano quindi specifici tipi di carne o che cercano di limitare il consumo, mostrano un restrained eating più pronunciato rispetto agli onnivori (Forrestell et al., 2013; Timko et al., 2012). Questo lascerebbe ipotizzare che il vegetarianismo abbracciato da latto-ovo-vegetariani e vegani sia di fatto più di tipo morale ed etico, rispetto a quello dei flexitariani e semi-vegetariani, probabilmente più legato ad aspetti salutistici e di peso. Di conseguenza, questi ultimi sarebbero più a rischio di sviluppare un DCA o comunque comportamenti alimentari disfunzionali. 

Altri stili alimentari misurabili sono l’Emotional Eating (o alimentazione emotiva) ovvero la tendenza più o meno pronunciata a sovralimentarsi, in risposta ad emozioni stressanti e l’External Eating (o alimentazione disinibita), cioè la tendenza a cedere o meno a delle tentazioni alimentari che provengono dall’ambiente, indipendentemente dal nostro appetito fisiologico. Ad oggi non ci sono confronti tra vegetariani e onnivori in questi specifici tratti. D’altra parte alcuni studi hanno riportato una maggiore tendenza ad abbuffarsi da parte dei vegetariani rispetto agli onnivori (Robinson-O’Brien et al., 2009; MacLean et al., 2021). Questo risultato potrebbe avere tre cause: i) i vegetariani potrebbe essere più indulgenti con loro stessi in relazione alla quantità di cibo da consumare, essendo verdura e frutta prodotti sani; ii) una dieta a base vegetale non sempre potrebbe fornire un senso di pienezza o un apporto equilibrato di macronutrienti e questo potrebbe innescare episodi di abbuffate; iii) i vegetariani potrebbero anche avere una soglia più bassa relativa al concetto di “abbuffata” rispetto agli onnivori, a causa delle loro abitudini alimentari più ponderate. 

Vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare. Foto di RitaE

 

Ma i vegetariani presentano più spesso un DCA rispetto agli onnivori?

Gli studi che hanno utilizzato domande dicotomiche non standardizzate, per rilevare la presenza di DCA tra i vegetariani, non sono arrivati a conclusioni definitive. Tre revisioni retrospettive (Hadigan et al., 2000; O’Connor et al., 1987; Kadambari et al., 1986), hanno rilevato che circa la metà delle persone con diagnosi di anoressia nervosa riferiva di aver aderito a una dieta vegetariana. Purtroppo, in nessuno di questi studi era specificato il sottotipo di vegetarianismo. Al contrario, un altro studio non ha trovato differenze nella distribuzione di vegetariani e onnivori in partecipanti con diagnosi di DCA e partecipanti sani (Estima et al., 2012). Infine, una ricerca, ha rilevato la maggiore propensione da parte dei vegetariani ad abbuffarsi ed utilizzare misure di controllo del peso non salutari, come il vomito autoindotto o l’uso di lassativi (Robinson-O’Brien et al., 2009).

 

Atteggiamenti alimentari disfunzionali nei vegetariani: i campanelli d’allarme

Un altro metodo per capire se il vegetarianismo è più o meno correlato ai Disturbi del Comportamento Alimentare è quello di valutare i punteggi ottenuti ai questionari self-report che indagano aspetti comportamentali o cognitivi che caratterizzano i DCA. Se è vero che il vegetarianismo è collegato ai Disturbi del Comportamento Alimentare, allora i vegetariani dovrebbero ottenere punteggi maggiori (che corrispondono a tratti più pronunciati) nelle varie scale e sottoscale che valutano la sintomatologia DCA rispetto agli onnivori. Gli studi che hanno utilizzato questo metodo d’indagine sono stati condotti prevalentemente su studenti universitari, ed hanno mostrato che i vegetariani avevano punteggi più alti (rispetto agli onnivori) nelle sottoscale che valutano le preoccupazioni relative all’alimentazione, alla forma e al peso corporeo, ma non in quelle che valutano le restrizioni caloriche (Sieke et al., 2013). Inoltre quelli che riferivano di essere vegetariani per motivi di salute o di forma/peso mostravano in media punteggi più alti rispetto a quelli che dichiaravano di seguire questa dieta per motivi etico-morali. E mentre Zuromsky e collaboratori (2015) hanno osservato punteggi maggiori in tutte le sottoscale in chi riferiva una qualsiasi forma di vegetarianismo, Timko e collaboratori (2012) hanno evidenziato che i punteggi critici nella sottoscala “preoccupazioni per l’alimentazione” caratterizzava solo il sottogruppo dei semi-vegetariani. 

In definitiva anche in questo caso i vari studi mostrano risultati contrastanti: alcuni hanno trovato punteggi più alti (e quindi atteggiamenti alimentari più disfunzionali) nei vegetariani rispetto agli onnivori, altri studi non hanno trovato differenze se non nei semi-vegetariani, che sembrano essere anche in questo caso quelli con più problematiche alimentari (Timko et al., 2012; Forestell et al., 2012). Infine, ad oggi un solo studio ha indagato gli atteggiamenti riguardanti la propria immagine corporea, meno negativi nelle ragazze vegetariane rispetto a quelle onnivore. Questa minore preoccupazione per la propria immagine corporea potrebbe dipendere dal BMI generalmente inferiore dei vegetariani (Dorard & Mathiue, 2021). 

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Immagine di Oberholster Venita

Conclusioni

In linea generale, dunque, sembrerebbe che chi ha una diagnosi di DCA riferisca di essere vegetariano più spesso rispetto a chi non ha una diagnosi di DCA. Inoltre, i gruppi subclinici quindi con punteggi alti nelle scale che misurano la sintomatologia DCA ma senza diagnosi, riferiscono storie di vegetarianismo più di frequente rispetto a chi non presenta alcun sintomo. Questi dati forniscono un supporto almeno preliminare all’idea che ci sia una relazione tra vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare. Gli studi che hanno confrontato sottogruppi di vegetariani, però, hanno sottolineato la necessità di distinguere tra i diversi sottotipi, i quali mostrano punteggi molto diversi nelle scale che misurano i comportamenti alimentari patologici. 

In particolare, rispetto a ovo-latto-vegetariani, vegani e onnivori, sembra che i semi-vegetariani siano quelli che riportano un comportamento alimentare più disfunzionale (sono i “più patologici” secondo Heiss et al., 2017). I semi-vegetariani hanno maggiori probabilità di limitare l’assunzione di cibo a causa di preoccupazioni riguardo l’alimentazione (Timko et al., 2012), mentre gli ovo-latto-vegetariani e i vegani aderiscono a una dieta vegetariana principalmente per motivi etici (Forestell et al., 2012; Curtis e Comer , 2006). Non solo, i semi-vegetariani sono anche più suscettibili alle abbuffate rispetto agli altri vegetariani e agli onnivori. Queste conclusioni suggeriscono che i semi-vegetariani sono categoricamente diversi dagli altri vegetariani e questa distinzione dovrebbe essere considerata quando si valuta il comportamento alimentare (Robinson-O’Brien et al., 2009).

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Vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare. Foto di Дарья Яковлева

Da questo punto di vista, sarebbe interessante se ci fossero più studi provenienti dai paesi mediterranei (come l’Italia), dove, se da una parte il vegetarianismo è abbastanza diffuso, dall’altra la dieta mediterranea prevede già di per sé un consumo di carne e di derivati animali moderato, a favore del consumo di vegetali (Willett et al., 1995). In un campione con tali abitudini alimentari, il sottogruppo semi-vegetariano potrebbe essere molto meno numeroso rispetto ad altri paesi occidentali, dove il consumo di carne e grassi animali è maggiore. In generale, la tipologia di vegetarianismo e i motivi che ne sono alla base non possono non prescindere dal campione di riferimento, ma ad oggi la maggior parte dei dati sul tema derivano dagli Stati Uniti e dai Paesi del Nord Europa.

Infine dobbiamo considerare che non solo il tipo di vegetarianismo, ma anche le tempistiche in cui vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare si sono avvicendati dovrebbero essere maggiormente approfonditi. Al momento non ci sono dati che indicano inequivocabilmente che il vegetarianismo sia di per sé un fattore di rischio dei DCA e che, quindi, potrebbe contribuire all’esordio di un DCA. Piuttosto, il vegetarianismo potrebbe essere un modo per limitare l’introito calorico e/o per “camuffare”, con un metodo socialmente accettabile, un DCA o comunque una sintomatologia alimentare tendente al patologico (Baş et al., 2005). È anche probabile che il vegetarianismo possa contribuire ad un prolungamento della patologia alimentare, rendendo più difficoltosa la guarigione e dunque configurarsi come un fattore di mantenimento più che come un fattore di rischio. 

Sono dunque necessarie ricerche ben progettate, con campioni variegati e attente alle numerose variabili relative alle due condizioni, per trarre conclusioni definitive. Ad oggi possiamo dire che sì, ci sono delle relazioni tra vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare, ma quale siano queste relazioni, è ancora tutt’altro che chiaro.

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Vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare. Foto di RitaE

 

[1] Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), edizione 5: sistema nosografico per i disturbi mentali o psicopatologici redatto dall’American Psychiatric Association

[2] Classificazione Internazionale delle Malattie (International Classification of Disease), edizione 11: sistema di classificazione internazionale delle malattie e dei problemi correlati, stilata dall’Organizzazione mondiale della sanità

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