AREE PROTETTE SOTTO PRESSIONE: IL CAMBIAMENTO CLIMATICO SPINGE GLI UCCELLI PIÙ IN ALTO, MA LA CONSERVAZIONE NON TIENE IL PASSO
Uno studio condotto dai ricercatori di UniTo nelle Alpi Cozie e Graie rivela che le specie adattate al freddo stanno scomparendo anche dove la natura è tutelata
Le montagne sono hotspot di biodiversità a livello globale, ma sono anche tra gli ambienti più vulnerabili ai cambiamenti climatici. Nelle Alpi europee, il riscaldamento globale e le trasformazioni del paesaggio stanno rapidamente modificando la vegetazione, con effetti diretti sulle comunità di uccelli, in particolare su quelle di alta quota. Le aree protette rappresentano strumenti fondamentali per salvaguardare queste specie adattate al freddo, ma quanto sono realmente efficaci in un mondo che si riscalda?
A questa domanda hanno cercato di rispondere il dott. Riccardo Alba e il prof. Dan Chamberlain del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi dell’Università di Torino nello studioElevational shifts in bird communities reveal the limits of Alpine protected areas under climate change, recentemente pubblicato sulla rivista Biological Conservation. Coprendo un periodo temporale di 13 anni di dati raccolti lungo un ampio gradiente altitudinale nelle Alpi Cozie e Graie, i ricercatori hanno utilizzato il Community Temperature Index (CTI) – un indicatore della tolleranza termica delle comunità – per valutare l’evoluzione delle comunità ornitiche all’interno e all’esterno delle aree protette.
I risultati mostrano un dato sorprendente: mentre al di fuori delle aree protette il CTI è rimasto stabile, all’interno delle stesse è aumentato rapidamente, riflettendo un incremento delle temperature medie annuali di oltre 1,19 °C nel periodo di tempo coperto. Questo indica che qualcosa sta avvenendo all’interno delle aree protette alpine, dove le comunità ornitiche stanno diventando sempre più simili a quelle presenti in zone non tutelate, probabilmente a causa del declino delle specie di alta quota ma anche per la colonizzazione di specie più comuni dalle quote più basse, come ad esempio la capinera e lo scricciolo.
Le variazioni più marcate si osservano in prossimità del limite del bosco, una fascia sensibile dove la vegetazione arbustiva e forestale sta avanzando verso le alte quote a causa dell’abbandono delle attività pastorali e del cambiamento climatico. Gli autori individuano proprio il cambiamento della copertura vegetale come principale motore di trasformazione delle comunità, sottolineando come la semplice esistenza di aree protette dai confini stabili potrebbe non bastare più a garantire la sopravvivenza degli uccelli più specializzati alle quote estreme.
Per contrastare questi effetti, lo studio suggerisce misure gestionali adattive come il pascolo mirato e la conservazione della connettività altitudinale, oltre a un monitoraggio continuo delle comunità ornitiche negli anni a venire. Solo espandendo la protezione formale e integrando azioni concrete sul campo sarà possibile mantenere habitat eterogenei e resilienti, in grado di ospitare anche in futuro le specie simbolo delle Alpi evitando la loro scomparsa.
Aree protette sotto pressione: il cambiamento climatico spinge gli uccelli più in alto, ma la conservazione non tiene il passo. Parco naturale dei Laghi di Avigliana. Foto di Elio Pallard, CC BY-SA 4.0
Riferimenti bibliografici:
Riccardo Alba, Dan Chamberlain, Elevational shifts in bird communities reveal the limits of Alpine protected areas under climate change, Biological Conservation Volume 309 2025, 111267, ISSN 0006-3207, DOI: https://doi.org/10.1016/j.biocon.2025.111267
Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino
PROGETTO CEFALEE: Tecnologia, creatività e innovazione didattica
Pazienti-attori e utilizzo della Camera Immersiva del Centro di simulazione per migliorare le cure ai pazienti
Come rendere più efficienti le cure per il paziente affetto da cefalea?
Come abbattere i tempi di attesa e i costi della sanità pubblica generati da percorsi non appropriati?
Giovedì 12 Dicembre 2024 – Un progetto di avanguardia di simulazione medica avanzata, nato dalla sinergia tra Corso di Laurea in Medicine and Surgery e l’AOU San Luigi Gonzaga, fornirà risposte innovative a queste domande, avvalendosi di “pazienti simulati”, attori appositamente formati a simulare gli aspetti clinici, comunicativi e psicologici di una malattia in modo realistico e la tecnologia sofisticata della Camera Immersiva del Centro di Simulazione del Polo Didattico Universitario dell’Ospedale San Luigi Gonzaga.
I dati
La cefalea è un fenomeno che riguarda circa il 50% della popolazione mondiale, ne soffre il 25% degli italiani, in particolare la popolazione femminile e il 70% delle persone la sperimenta almeno una volta nella vita, mentre circa il 5% soffre di una forma cronica. Terza causa di disabilità a livello mondiale, la cefalea è stata riconosciuta in Italia nel 2020 una “malattia sociale”.
Per quanto riguarda l’aspetto economico, uno studio italiano ha calcolato costi diretti annuali pro capite di 1482 euro, cinque volte maggiori nella forma cronica rispetto a quella episodica.
Da una analisi condotta in collaborazione con il centro di Epidemiologia dell’ASL TO3 si è visto come in Piemonte la cefalea è uno dei primi motivi di accesso in pronto soccorso: il numero di richieste in emergenza per cefalea è di circa 5000 casi all’anno su tutto il territorio piemontese, ma solo per il 6% di questi risulta necessario un ricovero ospedaliero. Il restante 94% è costituito da casi che potrebbero evitare l’accesso in pronto soccorso, alleggerendo gli ospedali e trovando una risposta più efficace e opportuna in altre sedi del Ssn.
Il Progetto Cefalee, il “paziente simulato” e il game nella Camera immersiva
Per ridurre l’accesso in pronto soccorso dei pazienti con cefalea e gestire sul territorio la maggior parte dei casi, diminuendo i tempi di attesa per i pazienti e i costi per la sanità pubblica, è importante che medici e studenti in medicina e infermieristica imparino a conoscere meglio un sintomo che risulta essere il più diffuso in ambito medico.
Il Progetto Cefalee, frutto della collaborazione tra il Corso di Laurea MedInTodell’Università di Torino, il centro di simulazione MedSim San Luigi Center e l’AOU San Luigi Gonzaga, ha come obiettivo principale la formazione del personale sanitario, e degli studenti, sulle cefalee.
“Attraverso la simulazione – spiega Marinella Clerico, Responsabile Patologie Neurologiche Specialistiche AOU San Luigi e professore associato dell’Università degli Studi di Torino – si potranno affrontare casi semplici e complessi, utilizzando differenti strategie, fra cui il ‘paziente simulato’ e la Camera Immersiva del Centro di Simulazione del Polo Didattico Universitario, per imparare a gestire meglio un sintomo, la cefalea, comune a numerosi contesti patologici: il mal di testa può essere infatti una manifestazione clinica banale, che passa spontaneamente, ma può essere anche spia di una malattia infettiva o di una patologia oncologica”.
Il corso insegna come trattare il sintomo cefalea in tutti i servizi a cui il paziente si può rivolgere e di cui può aver bisogno: il pronto soccorso, l’ambulatorio del medico di medicina generale, l’ambulatorio specialistico, la sala operatoria.
In ciascuno di questi ambienti, i partecipanti dovranno valutare la gravità del sintomo presentato da un paziente simulato, un attore, appositamente formato, che simula gli aspetti clinici, comunicativi e psicologici della malattia in modo realistico per facilitare l’apprendimento delle corrette strategie di intervento, migliorando l’interazione dei partecipanti con l’ambiente scenario rappresentato in ogni situazione.
“Si tratta di un ulteriore passo avanti nello sviluppo di percorsi di avanguardia – commenta David Lembo, Presidente del Corso di Laurea in Medicine and Surgery dell’Università degli Studi di Torino– dove tecnologia, innovazione didattica e ricerca scientifica si incontrano per migliorare ulteriormente la formazione di chi opera ogni giorno nei reparti del nostro ospedale e degli studenti dei nostri corsi di laurea, concorrendo a migliorare l’esito delle cure al paziente. Questo è lo spirito di un moderno Ospedale d’insegnamento, quale è il San Luigi”.”
Nella Camera immersiva, ultima tappa del percorso formativo, il corso diventa un game: sulle pareti vengono proiettate tre caselle interattive. A seconda di quella scelta, il corsista inizia a trattare un paziente più o meno grave, stimolato dalle opzioni possibili che compaiono sulle pareti della stanza. Fra queste, video o audio interviste ai “pazienti simulati” aiutano nell’anamnesi e immagini diagnostiche (tac, encefalogramma e liquor), anche queste proiettate, conducono i corsisti a prendere decisioni e arrivare a una diagnosi. Al termine del percorso si ottiene un punteggio. Se questo non è sufficiente si ripete il percorso, con l’ovvio vantaggio di poter tentare soluzioni senza mettere a rischio l’esito delle cure su un paziente vero.
“Con questo progetto – sottolinea Davide Minniti, Direttore Generale AOU San Luigi Gonzaga – si consolida ulteriormente la collaborazione fra università e ospedale, grazie a un percorso formativo di altissima qualità a disposizione non solo degli studenti ma anche dell’aggiornamento professionale continuo dei clinici del San Luigi Gonzaga. Sì tratta di una concreta occasione di arricchimento professionale che fa crescere l’orgoglio e il senso di appartenenza a questa Azienda sanitaria”.
“Il nostro Servizio sanitario nazionale – commenta Matteo Marnati, Assessore all’Innovazione e Ricerca della Regione Piemonte– è fra i più inclusivi e fra i miglior al mondo dal punto di vista delle competenze professionali che offre. La sua universalità è una complessità che abbiamo la responsabilità di gestire e di conservare. Su questo molto può fare l’innovazione tecnologica: sono sotto gli occhi di tutti le conquiste più recenti della medicina grazie all’intelligenza artificiale, ed è solo l’inizio. Il modello formativo innovativo che si presenta oggi qui al Polo didattico universitario internazionale del San Luigi Gonzaga si può considerare una delle eccellenze a livello europeo, e il nostro orizzonte deve necessariamente essere europeo. Stiamo costruendo dopo il covid un nuovo sistema in cui l’innovazione è centrale, e su questo il Piemonte insieme alla Lombardia è all’avanguardia in Italia”.
“Avviare un corso per studenti e operatori sanitari che siano in grado di utilizzare pazienti ‘simulati’ all’interno della Camera Immersiva del Centro di Simulazione del Polo Didattico Universitario dell’AOU è particolarmente importante – ha dichiarato Federico Riboldi, Assessore alla Sanità della Regione Piemonte – perché dà il via a innovative azioni che, ne sono certo, sapranno migliorare la gestione, il trattamento e i percorsi clinici dei pazienti affetti da cefalea. Inoltre la Regione Piemonte ha ottenuto un finanziamento di oltre 800 mila euro dal Ministero della Salute per il progetto “Validazione di un nuovo percorso di salute per pazienti affetti da cefalea primaria cronica in Regione Piemonte” che vede la partecipazione di ben dodici Aziende Sanitarie Regionali, tra cui proprio il San Luigi di Orbassano. Un progetto che vedrà il momento finale con la presentazione del prossimo 19 dicembre a Torino”.
La Camera Immersiva è un ambiente di simulazione avanzata, in grado di trasformare lo spazio in un’altra realtà, reale o immaginaria, con cui si può interagire grazie a speciali proiettori laser che trasformano le sue pareti in schermi touch interattivi. La camera immersiva del Polo Didattico universitario dell’AOU San Luigi Gonzaga può ricreare scenari molto vari e diversi fra loro perché è dotata di tecnologie come Rumble Floor per generare vibrazioni nel pavimento, erogatori di oltre 400 odori diversi e di fumi, simulatori di eventi atmosferici come il vento, e un raffinato sistema sonoro che permette di riprodurre rumori ambientali.
Testo e foto dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino
PiQuET – Piemonte Quantum Enabling Technology: INAUGURATA L’INFRASTRUTTURA DI RICERCA APPLICATA, IL FRUTTO DELLA COLLABORAZIONE TRA ISTITUTO NAZIONALE DI RICERCA METROLOGICA, POLITECNICO DI TORINO E UNIVERSITÀ DI TORINO
L’infrastruttura con sede a Torino sarà la base per lo sviluppo di molti progetti di ricerca innovativi nel campo dei dispositivi quantum, micro e nano, alcunianche finanziati con i fondi del PNRR, a favore sia della comunità scientifica che dell’innovazione industriale.
PiQuET – Piemonte Quantum Enabling Technology – è un’infrastruttura di ricerca applicata, una facility innovativa, competitiva, all’avanguardia e a servizio del mondo industriale e accademico per lo sviluppo di nuove linee di ricerca e per affrontare sfide scientifiche e problemi ingegneristici nel campo dei dispositivi micro, nano e quantum. PiQuET – inaugurata oggi presso la sede dell’Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica alla presenza del professor Pietro Asinari, Direttore scientifico dell’Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica, della professoressa Giuliana Mattiazzo, Vice Rettrice per il Trasferimento Tecnologico del Politecnico di Torino e della professoressa Cristina Prandi, Vice Rettrice alla ricerca dell’Università degli Studi di Torino – si pone come centro di riferimento per le tecnologie di micro e nano-fabbricazione, anche grazie alla sinergia tra un ambiente in grado di favorire lo scambio e il confronto del know-how di scienziati, ingegneri e partner industriali.
L’infrastruttura nasce da un progetto finanziatodal POR FESR 2014-2020 della Regione Piemonte, con la partecipazione dell’Istituto Nazionale diRicerca Metrologica, del Politecnico diTorino e dell’Universitàdegli Studi di Torino.
L’obiettivo di PiQuET è quello di porsi come strumento abilitante per lo sviluppo di linee di ricerca ambiziose a favore sia della comunità scientifica che dell’innovazione industriale.
Tra le dotazioni di PiQuET spicca una clean room di 400m2 in classe ISO5 e ISO6 con sei aree tecnologiche: litografia ottica/elettronica/ionica, etching e deposizione di film sottili, packaging e processi chimiciwet, caratterizzazione dispositivi micro, nano e quantum. Inoltre sono presenti alcuni laboratori con macchinari all’avanguardia per la ricerca nel campo della Metrologia e della Comunicazione quantistica, della Microfluidica, di Additive manufacturing e di NanoBioFotonica.
L’infrastruttura – che è anche partner di It-FAB, il network italiano delle infrastrutture di ricerca nel campo delle micro e nanotecnologie – si presenta come un’eccellenza nella progettazione, fabbricazione e caratterizzazione di dispositivi di metrologia quantistica, oltre che nella crescita, caratterizzazione e lavorazione dei materiali alla micro e nanoscala per la fabbricazione di MEMS (acronimo di micro electro-mechanical systems, ovverola tecnologia dei dispositivi microscopici che incorporano parti sia elettroniche che mobili), microsensori e Lab-On-Chip. Tutto questo grazie alla presenza costante di personale qualificato dell’Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica, del Politecnico di Torino e dell’Università di Torino.
Le capacità tecnologiche dell’infrastruttura e del personale sonoapplicate e sviluppate nel campo della metrologia, della comunicazione, del sensing, del monitoraggio biomedico, energetico e ambientale, dei sistemi industriali e dell’additivemanufacturing.
Le strutture e i macchinari di PiQuET saranno accessibili alle imprese per ricevere formazione, supporto allo sviluppo di nuovi materiali micro e nanostrutturali, alla misura e alla caratterizzazione di dispositivi per applicazioni on demand e per la progettazione e la fabbricazione di dispositivi e componenti funzionali.
“L’infrastruttura di ricerca PiQuET si basa sulla sinergia strategica con il Politecnico e con l’Università di Torino e mette al centro di un progetto articolato l’eccellenza della ricerca e la capacità di fare innovazione a beneficio del territorio, dell’industria e del posizionamento internazionale delle istituzioni coinvolte –commenta il professor Pietro Asinari, Direttore scientifico dell’INRiM – Mettiamo a fattor comune le nostre risorse, soprattutto i talenti, per creare la casa comune delle tecnologie quantistiche, della nanofabbricazione, della scienza delle misure di domani, con l’obiettivo di essere sempre più incisivi nell’innovazione e dare le risposte che le comunità di riferimento ci chiedono, siano esse locali, nazionali o europee. Questa infrastruttura è fondamentale anche per promuovere la competitività del Paese nel programma Next Generation EU (PNRR), in cui ritroviamo la visione e i valori che ci hanno guidato fin qui”.
“L’inaugurazione di PiQuET è la conclusione positiva di un percorso nato anni fa insieme a INRiM e all’Università, ma si pone anche come punto di partenza per le sfide presenti e future della ricerca e del rapporto con le imprese – commenta la professoressa Giuliana Mattiazzo, Vice Rettrice per il Trasferimento tecnologico del Politecnico di Torino – L’infrastruttura all’avanguardia infatti è a disposizione dei progetti finanziati dal PNRR per portare avanti linee di ricerca innovative e dare una mano all’evoluzione del Paese, ma è a disposizione anche del territorio per aiutare le aziende a rinnovarsi e a formare personale qualificato, in un’ottica di amplificazione dell’impatto della comunità scientifica sul tessuto imprenditoriale”.
“La realizzazione dell’infrastruttura PiQuET – dichiara la professoressa Cristina Prandi, Vice Rettrice per la ricerca delle scienze naturali e agrarie dell’Università di Torino – rappresenta un ottimo esempio di sinergia e di utilizzo virtuoso di fondi pubblici, e di condivisione di visione tra UNITO, POLITO e INRiM. L’investimento in infrastrutture di eccellenza consente di valorizzare il potenziale di ricerca e di innovazione di un territorio, di rafforzare i rapporti con il settore privato, di acquisire una valenza nazionale ed internazionale, attraverso l’integrazione di tali infrastrutture nelle reti paneuropee di ricerca e sviluppo. PiQuET verrà integrata e valorizzata nell’ambito delle innumerevoli attività di ricerca e trasferimento tecnologico previste nei progetti finanziati nell’ambito PNRR, realizzando così, attraverso le sinergie tra fondi, percorsi di valorizzazione di competenze, di formazione, di innovazione e di ricerca di eccellenza che contribuiranno a collocare il nostro Paese tra i più tecnologicamente avanzati a livello internazionale”.
Testo, video e immagini dall’Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino.
SVELATA L’OPERA IN MARMO DEDICATA ALLA PRIMA LAUREATA DELL’UNIVERSITÀ DI TORINO
Oggi, venerdì 18 novembre 2022, alle ore 10.00,presso lo Scalone Monumentale del Palazzo del Rettorato (Via Verdi 8, Torino), si è tenuta la cerimonia di scoprimento del ritratto marmoreo in memoria di Maria Velleda Farnè, prima donna a conseguire la laurea a Torino nel 1878 in Medicina e chirurgia, la seconda nel Regno d’Italia. Sono intervenute Giulia Carluccio, Prorettrice dell’Università di Torino, Mia Caielli, Presidente CUG dell’Università di Torino, Elena Bigotti, Consigliera di Fiducia dell’Università di Torino, Chiara Rollero, Direttrice CirsDe dell’Università di Torino e Paola Novaria, Archivio Storico di Ateneo, autrice di una recente biografia su Maria Velleda Farnè.
A trecento anni dall’apertura del Palazzo dell’Università di via Po, voluto da Vittorio Amedeo II per essere sede dell’Ateneo e inaugurato nel 1720, un volto di donna trova finalmente posto nella Galleria dei Dotti che si incontrano entrando nel cortile, al piano terra e al piano nobile. Tra professori delle diverse discipline, riformatori dell’istruzione, allievi illustri, studenti combattenti si inserisce il ritratto in marmo di Maria Velleda Farnè (1852-1905). L’opera è stata eseguita a Carrara dal maestro artigiano Michele Monfroni e trova collocazione lungo lo scalone monumentale che conduce all’Aula Magna. La Commissione Toponomastica della Città di Torino inoltre, ha di recente approvato la proposta di intitolazione alla dottoressa Farnè del sottopasso tra corso Grosseto e corso Potenza.
Scoprimento del ritratto marmoreo dedicato alla memoria di Maria Velleda Farnè
Maria Velleda Farnè nasce a Bologna nel 1852 e successivamente emigra con la famiglia in Piemonte. Nel 1873si iscrive alla Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Torino, dove si laurea nel 1878. Il quotidiano La Stampa, il 22 luglio 1878, a tal proposito riporta:
“La signorina Farnè non si è arrestata a mezza strada, ma l’ha percorsa tutta intera con coraggio, a piè fermo e sicuro, con la serenità negli occhi modesti, con lo stimolo di un’onesta ambizione”.
In seguito si trasferisce a Roma, poiché nominata nel 1881 medichessa onoraria della regina Margherita di Savoia. Trascorre nella capitale il resto della breve esistenza, pubblicando anche due articoli in tema di igiene e abbigliamento femminile. Non contrae matrimonio e deve fronteggiare, dalla fine degli anni Novanta, un progressivo impoverimento. Si spegne precocemente nel novembre del 1905 in casa di parenti, in una dimora destinata alla villeggiatura estiva sulle colline non distanti da Torino.
Oggi, venerdì 18 novembre, alle ore 18.00, presso il Teatro anatomico (c.so Massimo d’Azeglio 52, Torino), nell’ambito dell’evento VICINI, è previsto inoltre un incontro pubblico dedicato alla presentazione della biografia della dottoressa Farnè: Paola Novaria dialogherà con Sylvie Coyaud, giornalista e divulgatrice scientifica.
Testo e foto dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino
Zanzare che trasmettono virus: tracciarle è importante: con l’app Mosquito Alert, i cittadini aiutano i ricercatori Monitorare le zanzare e i patogeni che possono trasmettere, come il virus West Nile, è importante per la salute pubblica e per la sanità animale. Un aiuto arriva anche da Mosquito Alert, l’app con cui i cittadini aiutano i ricercatori a tracciare le specie di zanzara presenti sul territorio.
L’Italia è sempre al centro della ricerca scientifica sulle zanzare, che mai come ora vanno studiate con attenzione anche nel nostro paese. Con le loro fastidiose punture, infatti, le zanzare possono anche trasmettere malattie a uomo e animali. Questo succede prevalentemente in regioni tropicali dove oltre 700.000 morti all’anno sono attribuite a malattie trasmesse da zanzare. Si stima che circa metà della popolazione mondiale viva in aree dove è possibile contrarre un’infezione dalla puntura di una zanzara.
Quest’estate, l’Italia sta vivendo un forte aumento di casi del virus di West Nile rispetto agli anni precedenti. Questo virus viene normalmente trasmesso da zanzare a uccelli (e viceversa), e occasionalmente alcuni mammiferi come cavalli ed esseri umani possono essere infettati attraverso la puntura di una zanzara che a sua volta si è infettata pungendo un uccello malato. La maggior parte delle persone infette non mostra alcun sintomo, mentre circa il 20% presenta sintomi leggeri: febbre, mal di testa, nausea, vomito, linfonodi ingrossati, sfoghi cutanei. Solo in rari casi, e prevalentemente nelle persone anziane, il virus produce seri problemi neurologici e può essere letale. Dalla sua prima segnalazione nel 1937 in Uganda nell’omonimo distretto, il virus West Nile è ormai presente in Medio Oriente, Nord America, Asia Occidentale ed Europa, dove è comparso nel 1958 e in Italia dal 2008.
“A differenza del cavallo, nell’essere umano non esiste ancora un vaccino per la malattia di West Nile e la prevenzione consiste solo nel difendersi dalle punture di zanzara, per esempio con repellenti e zanzariere – chiarisce Alessandra della Torre, coordinatrice del gruppo di ricerca di entomologia medica di Sapienza. La prevenzione va effettuata soprattutto a livello individuale, ma tanto i cittadini quanto le amministrazioni pubbliche devono vigilare: l’obiettivo è quello di eliminare, quando possibile, i siti dove maturano le larve (raccolte d’acqua, canali di irrigazione, vasche ornamentali, caditoie stradali) delle zanzare che trasmettono il virus, o di trattare tali siti con insetticidi a basso impatto ambientale, in modo da ridurre infine il numero delle zanzare adulte”.
West Nile in Italia, ecco un po’ di numeri: dall’inizio di giugno al 30 agosto 2022, il bollettino periodico dell’Istituto Superiore di Sanità, del Ministero della salute, riporta 386 casi umani di infezione confermata, con 22 decessi; il primo caso è stato in Veneto e prevalgono le segnalazioni al nord, ma se ne registrano anche più a sud come in Toscana ed Emilia-Romagna, nonché in Sardegna. La sorveglianza veterinaria su cavalli, zanzare e uccelli (selvatici e stanziali) al 30 agosto conferma la circolazione del virus West Nile in Piemonte, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Lombardia e Sardegna. E tra tutte le infezioni umane West Nile segnalate all’ECDC (European Centre for Disease Prevention and Control) dai paesi dell’Unione europea e dello Spazio economico europeo, dall’inizio della stagione di trasmissione al 31 agosto 2022, la maggior parte arriva proprio dall’Italia.
Mosquito Alert Italia, a cui partecipano l’Istituto Superiore di Sanità, Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie, MUSE- Museo delle Scienze di Trento e Università di Bologna, con il coordinamento del Dipartimento di Sanità Pubblica e Malattie Infettive di Sapienza, è un progetto di scienza partecipata (Citizen Science), che coinvolge cioè i cittadini nel monitoraggio delle zanzare.Basta avere uno smartphone, scaricare l’app gratuita Mosquito Alert e inviare ai ricercatori foto di zanzare e di possibili siti riproduttivi dell’insetto (es., tombini), ma anche segnalazioni delle punture ricevute.
Zanzare che trasmettono virus: tracciarle è importante: con l’app Mosquito Alert, i cittadini aiutano i ricercatori. Culex Pipiens. Foto di David BARILLET-PORTAL, CC BY-SA 3.0
Ma è inviando fotografie di zanzare che si potrà davvero fare la differenza, permettendo alla task force di Mosquito Alert Italia di identificarne le specie; si potranno anche inviare fisicamente interi esemplari dell’insetto ai ricercatori di Sapienza. Il tracciamento sarà indirizzato a tutte le specie di zanzara: sia quelle che hanno ampliato la loro distribuzione a seguito di fenomeni quali cambiamento climatico, globalizzazione e aumento degli spostamenti internazionali (specie invasive), sia quelle già presenti in origine sul territorio (autoctone), come la cosiddetta “zanzara comune” o “zanzara notturna” (Culex pipiens), responsabile della trasmissione del virus West Nile in Italia.
“Tracciare le specie di zanzara e le variazioni dei loro areali è importante – dichiara Beniamino Caputo di Sapienza, coordinatore di Mosquito Alert Italia – anche nel Piano Nazionale di prevenzione, sorveglianza e risposta alle Arbovirosi (PNA) 2020-2025 del Ministero della salute, si contempla la collaborazione attiva dei cittadini con i ricercatori (Citizen Science), tra le azioni rilevanti ai fini della gestione delle malattie trasmesse da vettori. Mosquito Alert consente di farlo con un minimo sforzo”.
TO-HERP, IL PROGETTO DI CITIZEN SCIENCE PER LA CONSERVAZIONE DEGLI ANFIBI E RETTILI URBANI TORINESI
Il progetto verrà presentato e lanciato in occasione del Congresso Nazionale di Erpetologia che si terrà al Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi (DBIOS) dell’Università di Torino dal 13 al 17 settembre.
Hierophis viridiflavus, uno dei serpenti più diffusi sul territorio nazionale spesso presente nelle aree urbane, un animale non pericoloso per la salute umana Foto Macro Sassoè
La conservazione della biodiversità passa oggi anche attraverso la conoscenza e la gestione della fauna e della flora delle nostre città. Gli anfibi e i rettili – rane, raganelle, rospi, lucertole, testuggini e serpenti – sono spesso presenti anche all’interno dei centri urbani e delle zone periferiche. Talora perché sopravvivono in aree che ancora mantengono un certo grado di naturalità, in altri casi perché si tratta di specie esotiche liberate che possono eventualmente essere fonte di problemi per la fauna autoctona.
Dal 13 al 17 settembre, nell’Aula Magna del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi (DBIOS) dell’Università di Torino (via Accademia Albertina 13, Torino) si terrà il XIV Congresso Nazionale della Societas Herpetologica Italica – SHI, Società Italiana di Erpetologia, la disciplina zoologica che studia rettili e anfibi. In occasione del Congresso, la Sezione Piemonte della SHI presenterà il progetto TO-herp, finalizzato alla raccolta di dati sulla presenza di anfibi e rettili nel territorio urbano torinese, nonché in alcuni comuni della Città Metropolitana.
Pelophylax esculentus, un anfibio ancora presente in alcune aree urbane e suburbane Foto di Franco Andreone
Questo progetto di citizen science – o scienza partecipata – realizzato dal Museo Regionale di Scienze Naturali di Torino (MRSN) con i Dipartimenti di Neuroscienze e Scienze della Terra dell’Università di Torino, consentirà di raccogliere informazioni utili sulla presenza delle specie tramite l’utilizzo di smartphone e fotografie. Franco Andreone, Conservatore Zoologo al Museo Regionale di Scienze Naturali di Torino e primo organizzatore di questo progetto, sottolinea che
In questo modo sarà possibile identificare i luoghi maggiormente ricchi di specie, nonché monitorare la presenza di specie esotiche, in primis le testuggini acquatiche. Sarà anche l’occasione di fornire un’attiva collaborazione con i comuni interessati per l’identificazione delle specie. Oltre a ciò, il Museo Regionale di Scienze Naturali ha attivato uno specifico modulo didattico.
Durante il congresso si susseguiranno conferenze e presentazioni scientifiche di circa 170 ricercatori e ricercatrici, che permetteranno di fare il punto dettagliato sullo stato delle conoscenze riguardanti l’erpetofauna italiana e di tutto il mondo. Secondo il Prof. Massimo Delfino del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino, Presidente del comitato organizzatore,
“il congresso contribuirà ad aumentare la conoscenza di animali poco noti e a favorire la loro conservazione”.
Testo e foto dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino sul progetto di citizen science TO-herp
Tumore colon-retto: bloccare la riparazione DNA uccide cellule tumorali
Lo dimostra una ricerca dell’IRCCS di Candiolo e del Dipartimento di Oncologia dell’Università di Torino pubblicata sulla prestigiosa rivista Clinical Cancer Research, secondo cui le proteine coinvolte nei sistemi di riparazione del DNA potrebbero diventare ottimi bersagli per nuovi farmaci efficaci anche in pazienti con tumori che non rispondono ad altre terapie a target molecolare. Principi attivi mirati a proteine dei sistemi di risposta al danno del DNA sono già in sperimentazioni cliniche di fase I-III: un biomarcatore composito, che includa e valuti alcuni di questi nuovi possibili bersagli potrebbe, perciò, essere uno strumento utile per stratificare i pazienti e identificare tempestivamente chi potrebbe rispondere a tali terapie
In un caso su tre i tumori del colon-retto, anche quelli più aggressivi e che non rispondono alle terapie a bersaglio molecolare note, potrebbero trovare beneficio dall’impiego di farmaci mirati ai sistemi di risposta al danno del DNA che nelle cellule tumorali in parte risultano difettosi rendendo i sistemi ‘superstiti’ essenziali per la sopravvivenza del cancro. Ad aprire la strada a questa nuova strategia terapeutica è una ricerca condotta da ricercatrici e ricercatori dell’IRCCS di Candiolo (TO) e del Dipartimento di Oncologia dell’Università di Torino appena pubblicata sulla prestigiosa rivista Clinical Cancer Research dell’American Academy of Cancer Research, condotta su ben 112 linee cellulari di tumori del colon-retto differenti per il profilo genomico. I risultati, confermati su organoidi derivati da pazienti, indicano che farmaci mirati a proteine coinvolte nei sistemi di riparazione del DNA potrebbero diventare una concreta risposta per molti pazienti a oggi senza opportunità terapeutiche: principi attivi di questo tipo sono già in fase I-III di sperimentazione clinica. Anche per questo motivo, secondo gli autori sarebbe opportuno ipotizzare l’uso di un “biomarcatore composito”, che includa la valutazione di alcuni di questi possibili target terapeutici, così da stratificare più razionalmente i pazienti con tumore al colon-retto e identificare quelli che avrebbero la maggiore probabilità di trarre un beneficio clinico dall’uso dei nuovi farmaci mirati ai sistemi coinvolti nella riparazione del danno al DNA.
“Ogni giorno siamo esposti a sostanze chimiche o agenti fisici, come il benzene o i raggi UV, che possono danneggiare il DNA: queste lesioni vengono continuamente risolte senza conseguenze per le normali funzioni cellulari grazie a un complesso sistema di riparazione del DNA – spiega Sabrina Arena dell’IRCCS Candiolo e del Dipartimento di Oncologia dell’Università di Torino, autrice ed ideatrice dello studio – Questo processo è ancora più importante nei tumori, dove alcuni di questi sistemi di riparazione del DNA sono difettosi ed è perciò indispensabile che quelli ancora funzionanti possano portare avanti la loro attività per permettere al tumore di ‘sopravvivere’. Tali sistemi conferiscono ai tumori una maggiore aggressività ma si possono rivelare un ‘tallone d’Achille’ e un ottimo bersaglio molecolare, perché se vengono ‘zittiti’ le cellule tumorali soccombono ai danni al DNA”. Gli inibitori PARP sono farmaci che colpiscono questi sistemi e sono già utilizzati in clinica per tumori alla mammella e all’ovaio; oggi altri farmaci di nuova generazione inibiscono altre componenti del sistema di riparazione del DNA e potrebbero perciò diventare un’opportunità preziosa anche nel tumore al colon-retto metastatico che non risponde ad altre terapie a bersaglio molecolare. La ricerca, realizzata grazie al contributo della Fondazione Piemontese per la Ricerca sul Cancro (FPRC) e dell’Associazione Italiana per Ricerca e la cura del cancro (AIRC), ha perciò avuto l’obiettivo di capire se i farmaci di nuova generazione possano essere utili in tumori per i quali a oggi non esistono opportunità terapeutiche efficaci.
“Abbiamo effettuato un screening farmacologico utilizzando principi attivi mirati a proteine coinvolte nei sistemi di riparazione del DNA, alcuni già in sperimentazione clinica in fase I-III, in 112 modelli preclinici di tumore del colon-retto differenti per profilo genetico, che includevano linee cellulari e organoidi realizzati a partire da campioni tumorali di pazienti – spiega Alberto Bardelli dell’IRCCS Candiolo e del Dipartimento di Oncologia dell’Università di Torino, coautore dello studio – I dati mostrano che circa il 30% dei casi, inclusi quelli refrattari alle attuali terapie, potrebbe rispondere ad almeno uno di questi farmaci di nuova generazione in grado di inibire la funzione di diverse proteine coinvolte nella riparazione del danno del DNA. È importante sviluppare nuove metodologie diagnostiche che consentano di identificare chi potrebbe beneficiare di questo tipo di terapie, per le quali sono già in corso studi clinici per dimostrarne la reale efficacia sui pazienti: un biomarcatore che valuti i diversi bersagli possibili potrebbe aiutare a stratificare il rischio e individuare i candidati che potrebbero rispondere meglio al trattamento. La strada è ancora lunga, ma questi risultati pongono le basi scientifiche e sperimentali per nuove e più efficaci terapie da applicare in futuro anche ad altri tipi di tumore”.
Il Museo di Anatomia Umana “Luigi Rolando” dell’Università di Torino
Chi visita il Museo di Anatomia Umana ha la possibilità di immergersi in un eccezionale esempio di museo scientifico ottocentesco, rimasto praticamente inalterato. Il Museo contiene infatti preparati anatomici artificiali e naturali, esposti in vetrine affollate. Le collezioni sono rese fruibili ai visitatori tramite postazioni video, codici QR e la guida cartacea disponibile al bookshop.
La prima sala del Museo di Anatomia Umana Luigi Rolando. Credits: Museo di Anatomia Umana, Università degli Studi di Torino
Una lunga storia
Il Museo di Anatomia Umana è uno dei più antichi appartenenti all’Università di Torino. Le sue origini risalgono infatti al 1739, quando il professore di anatomia Giovan Battista Bianchi sviluppa il Progetto per il Museo della Regia Università. Nelle sale espositive sono conservati alcuni preparati appartenenti a queste prime raccolte, ma la maggioranza dei materiali risale al secolo successivo. A cavallo tra Sette e Ottocento il Museo gode dell’attività di Direttori autorevoli, come Luigi Rolando, studioso del sistema nervoso, con la spiccata capacità di coniugare dati di natura morfologica, funzionale ed embriologica e fondatore della scuola neuroanatomica torinese. Gli succede Lorenzo Restellini, patriota convinto, medaglia al valore militare, che combatte in diverse battaglie risorgimentali come volontario nel servizio sanitario militare. Infine Carlo Giacomini, che sviluppa la scuola anatomica torinese in vari campi (neuroanatomia, anatomia topografica, embriologia, antropologia, primatologia) e mette a punto procedimenti tecnici originali per l’allestimento di preparati anatomici macro e microscopici, in parte conservati nel museo. Partecipa anche ad attività sanitarie durante eventi bellici, nel quadro della nascente Croce Rossa Internazionale. Questi scienziati contribuirono all’ampliamento delle collezioni anatomiche, pensate con scopo didattico: servivano infatti agli studenti e ai ricercatori di medicina nell’ambito dei propri studi.
Nel 1898 il Museo viene spostato nel Palazzo degli Istituti Anatomici, nato nell’ambito della Città della Scienza, voluta dai professori universitari e dalla Città di Torino per dare uno spazio funzionale e di prestigio alle discipline scientifiche. Qui le collezioni trovano la loro collocazione definitiva, che permane fino ad oggi.
Varcando la soglia del Museo si ha la sensazione di entrare in una “cattedrale della scienza” con un impianto architettonico che si sviluppa in una serie di colonne di granito che sostengono le volte a crociera e suddividono lo spazio in tre navate. Sulle pareti, in apposite lunette, sono collocati i ritratti di personaggi illustri del mondo accademico e naturalistico, come Andrea Vesalio, Marcello Malpighi, Giulio Bizzozero e lo stesso Luigi Rolando, l’unico posizionato nella sala dedicata allo studio del cervello.
Le collezioni esposte
Il Museo di Anatomia Umana espone preparati anatomici artificiali (prevalentemente modelli in cera), naturali (conservati a secco o in liquido) e collezioni frenologiche e primatologiche.
Lo scorticato, realizzato da Ercole Lelli, rappresenta un esempio di ceroplastica settecentesca. Credits: Museo di Anatomia Umana, Università degli Studi di Torino
Le cere del Museo, recentemente restaurate, rappresentano una delle più ricche collezioni esistenti. La raccolta comprende oltre 200 opere di ceroplastica, alcune delle quali risalenti alla seconda metà del Settecento. Altri preparati artificiali sono la “donna solo nel ventre aperta”, in gesso, che rappresenta uno dei pezzi più antichi esposti all’interno del Museo, già menzionata nel primo catalogo, datato 1739. Degno di nota è anche L’uomo di Auzoux, un modello anatomico di scorticato, realizzato in cartapesta dal medico e anatomista francese Louis-Jérome Auzoux, scomponibile in 129 pezzi ed appartenente alla prima serie entrata in commercio (1830).
L’uomo di Auzoux, uno dei pezzi più pregiati esposti in museo, è un esempio di preparati anatomici artificiali. Credits: Museo di Anatomia Umana, Università degli Studi di Torino
I preparati anatomici a secco e in liquido risalgono prevalentemente alla seconda metà dell’Ottocento, quando nuove tecniche di preparazione favoriscono l’allestimento di preparati di anatomia “naturale”. In molte vetrine si osservano preparati che sembrano ripetitivi, mentre osservando più attentamente si notano piccole differenze anatomiche, oggetto di interesse per lo studio della variabilità individuale.
La prima vetrina della sala principale mostra una serie di scheletri di feti umani a diverso stadio di ossificazione, dal terzo mese di gravidanza alla nascita; poco più avanti due vetrine conservano lo scheletro di una persona affetta da gigantismo acromegalico contrapposto a uno di nano armonico.
Nella seconda sala si apprezza una numerosa collezione di cervelli, preparati secco secondo il metodo di conservazione messo a punto da Carlo Giacomini. In questa sala, dedicata allo studio del cervello, è esposta anche una parte della collezione craniologica, composta da più di 1000 crani, preparati prevalentemente durante la seconda metà dell’Ottocento. Si tratta di una delle collezioni più importanti per il numero di individui di età e sesso noti.
Infine, la collezione frenologica, donata al Museo dall’Accademia di Medicina nel 1913, è composta da diverse teste in gesso, tra cui anche quella di Gall, fondatore della disciplina, oltre a calchi in gesso di crani e teste di personaggi divenuti famosi nel bene e nel male (come Cavour, Napoleone, Raffaello Sanzio…). La frenologia era una disciplina in voga nella prima metà dell’Ottocento, soprattutto in ambito artistico, che riteneva di poter individuare all’interno di precise aree del cervello la localizzazione di attitudini varie, qualità morali e facoltà individuali. Esaminando esternamente il cranio di un individuo si credeva di poter individuare le “bozze” della benevolenza, dell’affettività, della combattività, ecc.
Le collezioni “nascoste”
Tra le collezioni conservate nel deposito del Museo vi è quella di strumenti medico-chirurgici militari oltre a quella di calchi di reperti paleoantropologici.
La pinza “cavapalle” appartiene alla collezione di strumenti medico chirurgici Ottocenteschi e serviva ad estrarre i proiettili o altri corpi estranei dai soldati feriti sul campo. Credits: Museo di Anatomia Umana, Università degli Studi di Torino
Gli strumenti medico-chirurgici, oltre 200, sono stati attribuiti, per caratteristiche e tipologie costruttive e grazie alla presenza in molti casi dei marchi dei costruttori, a un periodo che va dalla fine del Settecento agli ultimi decenni dell’Ottocento. Sono state utilizzate dai due anatomisti Lorenzo Restellini e Carlo Giacomini durante le campagne militari ottocentesche. Successivamente sono stati disposti, nel corso del Novecento, nella sala settoria dell’Istituto Anatomico, dove venivano utilizzati nelle normali attività di dissezione da professori e studenti. Le operazioni di riordino del patrimonio in strumentaria di interesse storico-scientifico effettuate in anni recenti hanno permesso la loro identificazione e valorizzazione.
Questo è il calco dell’incisione di un uro presente nella Grotta del Romito ed appartiene alla collezione paleontologica del Museo di Anatomia Umana. Credits: Museo di Anatomia Umana, Università degli Studi di Torino
La collezione di calchi paleontologici, invece, è stata realizzata a partire dal 1980, anno di attivazione del Laboratorio di Paleontologia Umana da parte del prof. Giacomo Giacobini presso l’allora Istituto di Anatomia Umana dell’Università di Torino. Il Laboratorio ha sviluppato attività di ricerca riunendo, grazie anche a collaborazioni internazionali, una ricca collezione di elevata qualità di calchi di reperti paleoantropologici: reperti osteologici (principalmente crani), manufatti paleolitici (litici, in osso, avorio …), opere d’arte parietale e mobiliare, e un’importante collezione di sepolture paleolitiche. La collezione di calchi di sepolture è fra le più ricche al mondo ed ha un elevato valore scientifico, in quanto rappresenta una fotografia dello scavo paleoantropologico al momento del rinvenimento, poi successivamente smantellato.
Il Museo di Anatomia Umana Luigi Rolando dell’Università di Torino fa parte del Sistema Museale di Ateneo (SMA).
PUBBLICATA LA PRIMA STIMA ESAUSTIVA DELLA POPOLAZIONE DI LUPO NELLE REGIONI ALPINE ITALIANE
Sono on line i risultati della stima del numero di lupi presenti sul territorio italiano, ottenuta nell’ambito del monitoraggio su scala nazionale 2020/2021, il primo condotto in Italia. Nelle regioni alpine italiane si stimano 946 lupi (con un livello di credibilità tra 822 e 1099), distribuiti su una superficie pari al 37% del territorio delle regioni alpine
esemplare in natura di lupo. Foto Gabriele Cristiani Archivio Aree Protette Alpi Marittime
Il primo monitoraggio nazionale del lupo è stato condotto tra il 2020 e il 2021 seguendo linee guida condivise, che hanno permesso una raccolta dati omogenea e risultati confrontabili su tutto il territorio italiano. Per la popolazione delle regioni alpine le attività di monitoraggio, di analisi e di elaborazione dei dati sono state coordinate dal Centro referenza grandi carnivori del Piemonte e dall’Università di Torino (DBIOS) nell’ambito del progetto Life WolfAlps EU, coordinato dalle Aree Protette Alpi Marittime, in stretta sinergia con ISPRA, responsabile del coordinamento su scala nazionale.
“Finora le informazioni sul lupo sono state raccolte in modo frammentato, è la prima volta che si stima la distribuzione e la consistenza di questa specie su tutta Italia, basandosi su un disegno di campionamento scientificamente robusto, e con una raccolta dati simultanea”
afferma Piero Genovesi, responsabile del Servizio per il coordinamento della fauna selvatica di ISPRA. In tutto, sono stimati 3.307 (tra 2.945 e 3.608) lupi sull’intero territorio italiano.
“Una corretta conservazione del lupo e un’efficace gestione dei conflitti richiedono dati scientificamente robusti – continua Genovesi – i risultati di questo studio forniscono quindi una base di conoscenza essenziale per le istituzioni che hanno la responsabilità della conservazione del lupo”.
È dunque la prima volta che viene realizzata una stima esaustiva a livello delle regioni alpine e su scala nazionale. Non solo, è una delle prime stime a livello di popolazione ottenute in Europa, quindi di grande valenza internazionale. La stima è stata ottenuta applicando modelli statistici innovativi, messi a punto da un team internazionale di tre Università (Norwegian University of Life Sciences, Università di Torino e Università di Chester) specializzate nello studio dell’abbondanza e andamento nel tempo delle popolazioni animali.
Grazie a questa analisi si è ottenuta una stima della dimensione della popolazione accurata, cui è associata una forchetta di errore, un intervallo che indica il livello di accuratezza del valore stimato, detto intervallo di credibilità. Quindi nel 2020/2021 sono 946, con un intervallo tra 822 e 1099, i lupi presenti nelle regioni alpine. Di questi, 680 (intervallo di credibilità: 602-774) individui fanno parte della parte centro-occidentale della popolazione e 266 (intervallo di credibilità: 204-343) appartengono alla sezione centro-orientale della popolazione. L’estensione dell’area in cui i lupi sono presenti è pari a 41.600 Km2, che equivalgono al 37% della superficie delle regioni alpine.
Sono invece 102 i branchi e 22 le coppie presenti nelle regioni alpine (intera superficie – zone collinari e di pianura incluse- di Liguria, Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia, Province Autonome di Trento e Bolzano, Veneto e Friuli Venezia Giulia), per un totale di 124 unità riproduttive. La maggior parte di esse si concentra nella porzione occidentale dell’arco alpino, dove sono presenti 91 branchi/coppie. Nell’area centro orientale sono invece 33 i branchi/coppie, quasi la metà delle quali ha territori transregionali: per esempio 10 branchi sono a cavallo delle Province Autonome di Trento e Bolzano e la regione Veneto. Una ennesima conferma della necessità di avere un approccio uniforme nel monitoraggio, che superi la frammentazione amministrativa. Attenzione, però, se si vuole confrontare il numero di unità riproduttive di lupo con gli anni passati, si deve considerare unicamente l’arco alpino, dove è stato svolto un monitoraggio continuo della specie dal 1999. Nell’ultima valutazione, effettuata nel monitoraggio 2017/2018 erano state documentate un totale di 51 unità riproduttive, arrivate a 103 nel 2020/2021.
“La popolazione di lupo è quindi cresciuta nell’arco alpino italiano negli ultimi tre anni, addirittura raddoppiando sia nel numero delle unità riproduttive documentate che nella distribuzione minima”
dichiara Francesca Marucco, del Dipartimento di Scienze della Vita e di Biologia dei Sistemi dell’Università di Torino, responsabile scientifica del progetto LIFE WolfAlps EU.
I risultati sono stati ottenuti grazie a un imponente lavoro di raccolta dati, compiuto per la regione alpina in modo esaustivo su tutto il territorio, anche con il coinvolgimento di volontari appositamente formati. Tra ottobre 2020 e aprile 2021 sono stati percorsi dagli operatori un totale di 40.725 km, che hanno permesso di raccogliere 10.672 segni di presenza, di cui 5.636 escrementi, 3.226 tra video e foto. Sono stati tracciati i percorsi dei lupi su neve per un totale di 1605 km, e recuperati 71 lupi morti. Un immenso lavoro di campo reso possibile dalla formazione di un “Network Lupo Regioni Alpine”, costituito da un gruppo di personale istituzionale e volontario, che ha ricevuto una formazione specifica, operativo in modo continuo e capillare sul territorio per la raccolta di tutti i dati utili al monitoraggio della specie. Il network è composto da 1513 operatori afferenti a 160 Enti e Associazioni distribuiti nelle diverse province delle regioni alpine italiane. Un network che è cresciuto e ha acquisito via via sempre maggiori competenze a partire dalla nascita, nel 1999, con il progetto Lupo Piemonte, e che si è arricchito nel corso del progetto LIFE WolfAlps (2013-2018) e che prosegue dunque oggi con il progetto LIFE WolfAlps EU.
“La creazione di una rete nazionale di operatori formati è uno dei risultati più importanti di questo lavoro, perché costituisce un vero patrimonio per la conservazione della biodiversità a scala nazionale nel lungo termine” afferma Marucco.
La stima delle unità riproduttive si inserisce inoltre in un contesto di effettiva collaborazione internazionale, considerata la natura transfrontaliera della popolazione alpina, che comprende Italia, Francia, Svizzera, Austria e Slovenia. Collaborazione portata avanti grazie all’istituzione di un gruppo di esperti internazionali, il Wolf Alpine Group, e dal progetto LIFE WolfAlps EU, il cui principale scopo è quello di trovare una strategia condivisa per la coesistenza tra attività umane e lupo a livello di popolazione alpina, superando quindi i confini amministrativi.
Articolo dal sito di Life WolfAlps EU: https://www.lifewolfalps.eu/pubblicata-la-prima-stima-esaustiva-della-popolazione-di-lupo-nelle-regioni-alpine-italiane/
È rientrato all’Università di Torino, dove si era laureato, dopo 10 anni di ricerca sulla genomica e l’ingegneria cardiaca a Cambridge e Seattle
ALESSANDRO BERTERO, DAGLI USA A TORINO PER STUDIARE LE MALATTIE AL CUORE
Il ricercatore piemontese è il vincitore del Career Development Award della Fondazione Armenise Harvard, che finanzia fino a un milione di dollari per 5 anni per l’avvio di nuovi laboratori di ricerca in Italia.
Alessandro Bertero. Crediti: Maurizio Marino
Torino, 2 luglio 2021. Alessandro Bertero ha scelto Torino per avviare un laboratorio in cui svolgere le proprie ricerche sul cuore.
“È un po’ come tornare a casa, sono partito da neolaureato e ora che ho la possibilità di essere leader di un team di ricerca sulle malattie cardiache, ho scelto di ritornare a Torino.” –spiega Alessandro Bertero, che per10 anni ha lavorato all’estero, all’Università di Cambridge e di Washington.
Come “dote”, Bertero porta un finanziamento di 1 milione di dollari (200.000 dollari all’anno per 5 anni) della Fondazione Giovanni Armenise Harvard, vinto dopo essersi aggiudicato il competitivo bando Career Development Award del 2020.
Grazie a questo finanziamento, Alessandro Bertero dà ufficialmente il via al suo nuovo Laboratorio Armenise-Harvard di Genomica dello Sviluppo ed Ingegneria Cardiaca al Molecular Biotechnology Center (MBC) dell’Università di Torino. Lo stesso Ateneo dove aveva iniziato la sua formazione scientifica con il biologo cellulare Guido Tarone, laureandosi nel 2009 in biotecnologie e specializzandosi nel 2011 in biotecnologie mediche.
Alessandro Bertero. Crediti: Maurizio Marino
Dopo aver vinto una borsa di dottorato dalla “British Heart Foundation”, Bertero si è trasferito all’Università di Cambridge nel Regno Unito, dove ha lavorato sulle cellule staminali. Successivamente ha continuato la sua carriera a Seattle grazie a un finanziamento di EMBO, che gli ha permesso di specializzarsi nei meccanismi dello sviluppo cardiaco, con un focus sulla cardiomiopatia dilatativa ereditaria, una grave malattia genetica al cuore ad oggi curabile soltanto attraverso il trapianto d’organo.
“Conosciamo troppo poco le basi molecolari delle malattie cardiache, che restano la più comune causa di morte – spiega Bertero – e l’obiettivo del mio laboratorio sarà proprio quello di capire quali sono i geni coinvolti in queste gravi patologie. E magari, in futuro, la mia ricerca potrebbe portare allo sviluppo di nuovi approcci terapeutici, in particolare di medicina rigenerativa per le cardiopatie congenite, la più comune malformazione potenzialmente letale nei neonati. Chiarire i meccanismi di regolazione genica alla base dello sviluppo embrionale e delle patologie cardiache può infatti fornire le conoscenze necessarie per generare cellule e tessuti da utilizzare per la rimuscolarizzazione del cuore”.
“Siamo orgogliosi di riportare in Italia e presso Università degli Studi di Torino un altro ricercatore eccellente – dichiara la Prof.ssa Fiorella Altruda, Direttrice del Molecular Biotechnology Center dell’Università di Torino – che si aggiunge ad altri, con un riconoscimento prestigioso dalla Fondazione Armenise Harvard. Il Centro di Biotecnologie Molecolari con il dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze per la Salute sta investendo su giovani che hanno maturato all’estero ottime competenze che dalla comprensione dei meccanismi cellulari aprono la via a nuovi approcci terapeutici. Il reclutamento di giovani ricercatori molto brillanti permette di aumentare la massa critica indispensabile per competere nella ricerca a livello internazionale.”
33 anni e originario di Bra, comune in provincia di Cuneo, Alessandro Bertero è l’ultimo dei 29 vincitori del grant Career Development Award Armenise Harvard, che promuove la ricerca di base in campo biomedico. Ogni anno la Fondazione premia uno o più promettenti giovani scienziati, italiani e non, che vogliano aprire un proprio laboratorio di ricerca in Italia.
Attualmente sono aperte le candidature per il Career Development Award 2021, con scadenza il prossimo 15 luglio. Tutte le informazioni sul sito della Fondazione Armenise Harvard https://armeniseharvard.org/